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  Nel 1989 alla fondazione di Enil a Strasburgo dissi che il modello di vita indipendente, che ci veniva proposto, era sostanzialmente valido soltanto per una piccola parte del mondo, e per questo mi creai molti nemici.    Alcuni mesi dopo, in un editoriale, Ratzka riprese questo problema.    Oggi è ancora più chiaro che purtroppo tale previsione era corretta.
  Mi sembra insomma serio ritenere che attualmente sono davvero ridotte al minimo le possibilità di realizzare la vita indipendente secondo taluni modelli.
  Uno dei principali ostacoli a ciò è dovuto al fatto che, grosso modo negli anni '60-'80, con lo spettro del comunismo, e grazie al boom economico e relativo surplus di ricchezza, il capitalismo occidentale poteva permettersi il cosiddetto welfare.
  Oggi la situazione è radicalmente cambiata:
-     quello spettro è quasi scomparso.
-     In molti paesi occidentali, Italia in prima fila, il cosiddetto “sviluppo” è stato finanziato in larga misura con il crescente debito pubblico non più gestibile.
-     La cosiddetta globalizzazione fa sì che, per far fronte alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, il capitalismo occidentale deve ridurre i “costi” (del lavoro e del welfare) più o meno a quei livelli. Di sicuro con una certa gradualità, ma comunque la necessità è questa.
-     Le condizioni del cosiddetto “ambiente” sono tali che il tipo di sviluppo attuale non può proseguire oltre, realisticamente perché il pianeta non ne può più e quindi ci sarà sicuramente la soppressione dell'essere umano, o, in ogni caso, ci sarà l'esaurimento delle risorse.
  In Italia, in particolar modo per quanto riguarda i disabili, la situazione è ancor più grave:
-     in generale il capitalismo si è sempre sviluppato basandosi sulla criminalità e sull'illegalità, però questo in Italia è molto più accentuato che nel resto dell'occidente e con una trasversalità e un'evidenza pubblica molto più vicine ai paesi in via di sviluppo che a quelli occidentali. Questa illegalità diffusa fa si che, rispetto ad altri paesi, ci siano meno risorse pubbliche a disposizione e meno diritti per chi ne ha veramente necessità.
-     Il prof. Barnes, dell'Università Leeds, sostiene giustamente che un grosso ostacolo all'autodeterminazione dei disabili è dato da quella che lui chiama l'”industria della disabilità”, cioè tutte quelle persone, istituti, cooperative, associazioni o federazioni, servizi speciali ecc., che campano sulla disabilità. Ovvero vivono sul fatto che chi ha talune difficoltà psicofisiche o sensoriali viene costretto a vivere in maniera significativamente riduttiva.  È evidente che la vita indipendente non si affermerà mai se proprio il movimento per la vita indipendente agisce per consolidare le posizioni di chi vive sulla disabilità, posizioni assolutamente determinanti ai fini del mantenimento della disabilità .
In altre parole mi sembra che il secolo scorso abbia dimostrato ampiamente che la  ricerca del babbo, del capo, del direttivo, della mamma, della chioccia, si risolve in una droga, che, nel migliore dei casi, porta a “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Ovvero, fuori dal mondo della disabilità, almeno in piccola misura si inizia a capire che alla gallina non conviene covare una pietra per far nascere un pulcino.
Infine, ma non meno importante a questo proposito, va considerato che  la funzione  disabilitante dell'”industria della disabilità” è notevolmente più grave in Italia per via del ruolo dello stato del Vaticano, che, con la sua opera colonizzatrice, ha contribuito notevolmente sia alla maggiore arretratezza civile del popolo italiano che ad un consolidarsi degli interessi di chi vive sulla disabilità.
  Considerati la crisi economica mondiale, e il particolare deterioramento dell'Italia, è insomma realistico ritenere che verrà fatto di tutto affinché i disabili vivano il meno possibile e in un contesto che porterà all'esaurimento di questa cosiddetta civiltà.
  Non è tuttavia necessariamente detto che l'immiserimento crescente, e quindi l'esaurimento di questa “civiltà”, sia totalmente lineare. Infatti creerà dei notevoli problemi:
-     proteste sociali crescenti, che non porteranno a niente di positivo in assenza della capacità di costruire un'alternativa concreta, ma che saranno sempre più difficili da gestire;
-     l'immiserimento crescente porterà ad una pressione sempre più accentuata sui servizi sociali difficilmente gestibile;
-     l'immiserimento crescente accentuerà sempre di più la caduta a spirale della domanda interna, e quindi lo sprofondamento, sempre a spirale, nella crisi.
  Dunque, se non vorrà scomparire, come pare che altre civiltà abbiano fatto, il capitalismo dovrà provare a darsi una regolata, anche se è poco realistico che ciò avrà successo. Però, se lo avrà, i disabili, che sono al centro della pressione nella spirale di crisi, sarebbero anche al centro dell'attenzione in un'eventuale spirale virtuosa. Questo perché l'unica via realistica per non scomparire passa attraverso una decrescita economica ed uno sviluppo dei servizi alla persona.
  A questo si aggiunge il fatto che, forse per la prima volta nell'evoluzione dell'umanità, il pregiudizio nei confronti dei disabili si è parzialmente ridotto. Ciò non toglie nulla al fatto che tale pregiudizio può rapidamente ricrescere, però nel momento attuale si tratterebbe di un'occasione da sfruttare. Il che è particolarmente importante perché in un contesto come quello appena sintetizzato, non si può certo pensare di uscire dalla disabilità attraverso le consuete rivendicazioni di settore. Viceversa si può sperare di uscirne soltanto portando le esigenze di autodeterminazione dei disabili in movimenti popolari eventualmente capaci di costruire un'alternativa.
  È un compito difficilissimo sia perché non vedo nessuna realtà capace di costruire una  vera alternativa. E sia perché è indispensabile avere sempre ben presente che i non disabili non conoscono le nostre necessità di autodeterminazione, e tanto meno come affrontarle. Per cui sarebbe autodistruttivo non essere sempre fermissimi, lucidissimi e chiarissimi nel portare le esigenze e un preciso progetto per la vita indipendente nella cosiddetta “società civile”.
 
  In un contesto del genere non è realistico aspettarsi che il “diritto” possa essere risolutivo rispetto alle esigenze di giustizia di chi viene costretto a vivere da disabile.
  Ciò innanzitutto per dei limiti intrinseci del cosiddetto diritto. In particolare il diritto è evidentemente impotente laddove, come in Italia, è largamente consolidata un'ampia illegalità trasversale. In questo ambito va anche osservato che il ruolo della magistratura è quello di colpire singole e sporadiche violazioni di legge. Viceversa il giudice è impotente laddove l'illegalità è ampiamente diffusa. Basti pensare alla mafia, alle tangenti ecc.
  Per quanto riguarda in particolar modo i disabili va poi osservato che c'è un ulteriore grosso limite intrinseco del diritto. Cioè a dire che il diritto è nato sostanzialmente per difendere il singolo dalle ingerenze altrui e/o dalle ingerenze del potere. Viceversa, per quanto riguarda la vita indipendente dei disabili, l'esigenza è esattamente opposta, e cioè intervenire fino nell'intimità del singolo per consentire l'esercizio delle libertà fondamentali.
  È vero che questo oggi vale per tutti, basti pensare, ad esempio, alla libertà di circolazione, che, nel concreto, non potrebbe essere esercitata pienamente senza consistenti interventi pubblici nella viabilità e nei mezzi di trasporto. Però per i disabili la necessità di interventi pubblici è molto più alta e va molto più nell'intimità.
  È poi vero che talune leggi hanno previsto alcuni interventi per tutelare le esigenze del disabile in questa direzione. Però sono ancora interventi minimali, che non incidono in maniera significativa sul problema. Lasciando quindi il disabile, di fatto, in una sostanziale situazione di inferiorità.
  Infine, ma non meno importante, c'è il problema del cosiddetto “diritto sulla disabilità”, che è ancora sostanzialmente un diritto di serie B, o di serie C.
  Prima di tutto perché in tema di disabilità ci sarebbe necessità di un grosso lavoro estremamente qualificato, mentre il denaro destinato a ciò è pochissimo, per cui evidentemente i migliori giuristi si dedicano ad altro.
  E sfugge la dimensione del problema quando si ritiene di una qualche utilità fare intervenire giuristi, anche autorevoli, senza una minima preparazione su cosa vuol dire vita indipendente.  E, parimenti, sfugge il problema reale se si ritiene che un lavoro di questo livello e di queste dimensioni possa essere fatto gratuitamente. Come pure sfugge una parte significativa della vita indipendente quando, nell'elencare i possibili assistenti personali, si mettono al primo posto quelli che hanno fatto il corso della regione.
  Sotto il profilo giuridico, c'è poi il fatto che la maggior parte del denaro destinato alla materia è gestito dall'”industria della disabilità”, che non ha evidentemente alcun interesse a gestirlo in maniera tale da indirizzarlo verso il superamento della disabilità. Tanto più poi quando i disabili mostrano che una tale gestione merita apprezzamento.
  Ecco allora che il vero problema in proposito è dato dal fatto che, al giorno d'oggi, l'arte più diffusa è senz'altro quella di prendere in giro le persone. Mediamente però quest'arte è più agevole da esercitare a danno dei disabili.  Certo non per maggiore stupidità di queste persone, bensì perché una vita di emarginazione non consente di raggiungere la necessaria consapevolezza di sé, oppure fa perdere quella che era stata raggiunta.
  È davvero indispensabile dedicarsi molto a questo tema, avendo chiaro che richiede molto impegno, molta volontà, molto tempo, e, spesso, molte risorse. In proposito va osservato che un importante ex direttore della cooperativa di Stoccolma per la vita indipendente lasciò questa attività per dedicarsi alla maggiore consapevolezza delle persone. Parimenti va ricordata l'enfasi con cui Judy Heumann, leader del movimento per la vita indipendente negli Stati Uniti, in un convegno a Ferrara, parlò dei tanti incontri di autoconsapevolezza per la vita indipendente che avevano fatto in quel paese.
  Senza consapevolezza di sé non si esce dalla disabilità, perché, se sono i disabili a proporsi agli altri come disabili, gli altri non ci percepiranno mai come non disabili.  È parimenti corretto dire che, fino a quando gli altri non ci tratteranno da non disabili, è difficilipercepire se stessi come non disabili. È un circolo vizioso molto difficile da rompere; però, se non sono i disabili stessi a romperlo, saremo abbondantemente in tempo a diventare polvere prima che tutto ciò non ci sia più.    In altre parole, per riuscire a raggiungere una buona consapevolezza di sé, ci vuole una grande forza di volontà, oltre al coraggio. Tuttavia, e qui le cose si fanno ancora più difficili, non si concepirà mai se stessi come non disabili fino a che, inconsapevolmente o meno, non si sta poi così male nell'essere trattati da disabili.
  Questo fenomeno di una bassa consapevolezza di sé è troppo diffuso in generale, però è particolarmente devastante quando riguarda la disabilità (e il diritto).
  Infatti, la disabilità è il settore del diritto nel quale sarebbero urgenti i maggiori interventi di corretta comprensione delle disposizioni vigenti e di utilizzo efficace dei mezzi giurisdizionali, mentre si è spesso soddisfatti di lavori di ben più basso livello.
  La Corte costituzionale ha ribadito più volte che sui disabili confluiscono i valori fondanti della Costituzione.    Ciononostante viene trascurato in maniera impressionante l'enorme e fondamentale lavoro che ci sarebbe da fare utilizzando gli articoli 2 e 3 della Costituzione.
  In particolare, nell'interpretazione delle norme vigenti e nella scrittura di quelle nuove, si trascurano completamente le potenzialità, che possono scaturire dall'inderogabilità della solidarietà dell'articolo 2 della Costituzione e del comma 2 dell'articolo 3 della medesima. Si trascura ancora troppo di sfruttare il fatto che il comma 2 dell'articolo 3 della Costituzione non consente pause, e tanto meno passi indietro, nell'obbiettivo da esso indicato.
  Si trascura ancora troppo tutto il discorso, di cui all'articolo 3 della Costituzione e della legge 67 del 2006, dell'eguaglianza e della non discriminazione.  È un discorso difficilissimo, sicuramente il più difficile dal punto di vista giuridico, ma è un tema che sarebbe capace di scardinare diverse porte, anche a livello europeo, mentre a questo livello viene ampiamente trascurato proprio dai disabili.
  Infine, ma per certi aspetti più importante di tutto, c'è il fatto che viene trascurata l'inviolabilità delle libertà di cui all'articolo 2 della Costituzione.  È una questione che  consente di scardinare diverse casseforti, però è ancora pochissimo utilizzata. Questa è anche una via che può evidenziare l'illegittimità, in tema di disabilità, del discorso dell'insufficienza delle risorse.  In primo luogo perché quando ci dicono che le risorse sono insufficienti, non si riferiscono all'intera ricchezza della collettività, bensì alle somme che le maggioranze politiche decidono di destinare ai disabili, mentre le maggioranze politiche non possono limitare la possibilità per i cittadini di esercitare le libertà inviolabili. L'illegittimità dei discorsi sull'insufficienza delle risorse risulta evidente anche sviluppando l'inderogabilità della solidarietà dell'articolo 2 della Costituzione e la cosiddetta “eguaglianza sostanziale” del comma 2 dell'articolo 3 della Costituzione.
  L'approssimatezza e inadeguatezza del “diritto e disabilità”, la si vede anche, ad esempio, quando si parla dei diritti umani. Il fatto è che l'articolo 2 della Costituzione parla di “diritti fondamentali”.  È vero che c'è chi sostiene che questa sia una clausola aperta, però non conviene lasciare le garanzie già contenute nell'articolo 2 della Costituzione per avventurarsi nei diritti umani visto che i diritti fondamentali classificati come tali dalla Costituzione possono essere sufficienti. Tanto più che pure la Convenzione Onu sui disabili non intende introdurre nuovi diritti a vantaggio di disabili, bensì intende collocare i disabili nei diritti fondamentali esistenti.
  L'approssimatezza e l'inadeguatezza si vedono anche quando si parla di diritti soggettivi perfetti. Infatti i diritti garantiti come fondamentali dalla Costituzione, di per se stessi, non sono diritti soggettivi perfetti. Lo diventano soltanto se, e nella misura in cui, sono tutelati come tali dalla legislazione ordinaria.
  Potrebbe essere anche interessante trasferire talune esigenza dai diritti assistenziali ai diritti di cittadinanza. Tuttavia è opportuno essere molto cauti in questa operazione perché può essere non pacifico se talune esigenze dei disabili siano davvero riconducibili a diritti di cittadinanza. Viceversa è sicuramente pacifico il fatto che il diritto all'assistenza deve essere interpretato ed applicato in conformità ai precetti in tema di libertà inviolabili stabiliti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione.   Ovvero, se ci si vuole spostare sul diritto di cittadinanza, prima di tutto è indispensabile una grossa elaborazione in proposito, anche per capire bene se è davvero possibile infilarci l'assistenza personale.
  È corretto affermare che la “soluzione ragionevole”, di cui tratta la Convenzione Onu, diversamente da quanto viene sostenuto da taluni, può essere una grande fregatura. Tuttavia qui potrebbe essere fatto un grosso lavoro giuridico per vedere come questo punto va interpretato alla luce degli articoli 2 e 3 della Costituzione italiana. E, forse, potrebbero uscirne risultati interessanti.
  Non si può poi dire se la Convenzione Onu è dotata o meno di coercività immediata. Il punto è che alcune parti lo sono, mentre altre parrebbe che non lo siano, però anche su questo ci sarebbe molto da dire.
  In sintesi, e per finire, è indispensabile:
-     privilegiare grossi investimenti nella maggiore consapevolezza di sé dei disabili;
-     portare, con molta oculatezza e determinazione, le necessità di autodeterminazione dei disabili al di fuori della disabilità;
-     investire in un “diritto della disabilità” maggiormente qualificato;
-     solo a questo punto rivendicare leggi regionali per la vita indipendente basandosi su uno stesso testo comune per tutta Italia.