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In relazione al convegno sulla vita indipendente organizzato a Roma il 4-5 maggio 2011 da ENIL, a proposito della giornata del 4 maggio, alla quale ho partecipato, potrebbero essere opportune alcune osservazioni.

In primo luogo, rispetto ad altri convegni di Enil, ci sono stati alcuni importanti passi avanti.

Finalmente c’era la traduzione simultanea, la cui mancanza aveva creato grossi problemi, ad esempio, al convegno tenuto alcuni anni fa a Valencia in Spagna. Erano previsti alcuni rimborsi spese per i partecipanti. C’erano a disposizione alcuni mezzi di trasporto accessibili e gratuiti.

In sala c’erano alcuni schermi video, che consentivano anche di leggere le relazioni (sebbene questa possibilità fosse in parte vanificata dalla troppa luce presente). C’era un buon buffet (anche se in una parte della sala dove la presenza del sole, attraverso le vetrate, era davvero opprimente e i tavoli erano pochi per i disabili presenti).

In secondo luogo, mi sembra ci siano state una serie di fatti che potrebbero meritare un po’ di riflessione. Tanto più se, alla luce di quanto ho visto quel giorno, non posso non ricordare le parole di Teresa Serra, secondo cui la vita indipendente è una “rivoluzione copernicana”. Infatti vita indipendente dovrebbe voler dire essenzialmente che il disabile non deve adattarsi ai servizi ed alle situazioni, bensì le situazioni ed i servizi devono essere organizzati in base alle esigenze del disabile.
Per il convegno del 4-5 maggio la possibilità di dormire era, mi è stato detto, dal lato opposto di Roma, ad un’ora di macchina (in una giornata senza ingorghi) dalla sala del convegno. Il fatto è che, per chi ha gravi disabilità, la mattina possono essere necessarie anche due o tre ore per essere pronti, per cui il dover essere così distanti dalla sede del convegno potrebbe aver richiesto delle levatacce anche molto pesanti. Ricordo moto bene l’ovvietà con cui mi trovai d’accordo con Teresa negli sforzi che lei fece affinché le prime due conferenze che si fecero in Italia sulla vita indipendente si tenessero nello stesso luogo dove si dormiva. Ed a questo prestai molta attenzione anche a proposito di quel grosso convegno sulla patente di guida che facemmo a Firenze all’inizio degli anni ’90. Per non dire poi che tenemmo presente quest’aspetto anche per alcuni incontri di “ENIL Italia”.
Un discorso analogo vale per il fatto che l’inizio della conferenza fosse previsto per le 9. Ricordo, a proposito di molti convegni organizzati, che si è sempre prestato attenzione a non prevedere l’inizio troppo presto ed ho notato che era un necessità risaputa e condivisa da tutti.
Purtroppo poi questo aspetto non è finito qui, tanto da sconfinare in un fatto che potrebbe essere definito una barzelletta, tanto più se aggiunto al problema appena visto. Da bravo bischero di fiorentino, alle 9.15 ero nella sede del convegno. Devo dire che c’era già anche l’on. Battaglia, credo assai più abituato di me ai cosiddetti “orari romani”. Forse anche lui avrà riflettuto sul fatto che sì eravamo a Roma, ma era sempre un convegno internazionale. Ebbene, nonostante che l’inizio del convegno fosse previsto per le ore 9.00, alle 9.15 la sala era tutta da organizzare, mancavano anche le sedie. Ho partecipato a oltre 100 convegni in tutto il mondo, ma una cosa del genere non mi era mai capitata. Certo, un disguido può sempre succedere, come giustamente si sono scusati gli organizzatori. Però, nei giorni precedenti, mi sarei assicurato almeno 2 o 3 volte per essere certo che la sala fosse stata pronta. Tanto più in considerazione dell’orario di inizio assai presto la mattina, con i problemi esposti sopra.
Insomma il convegno è iniziato alle 10.35, mentre un disabile grave che avesse preso (stupidamente?) tutto sul serio, magari si sarebbe alzato alle cinque (con tutto quello che può comportare una cosa del genere con una grave disabilità) per essere puntuale. Ovvero, capisco che è complicato organizzare un convegno per disabili, dovendo tener presente sia l’accessibilità che l’esigenza di spendere meno possibile. Però, un conto è dire: ok, non è stato possibile fare meglio di così, siamo consapevoli delle difficoltà che questo comporta per i disabili, per cui prestiamo attenzione ad altri dettagli, appunto l’orario di inizio, la puntualità nell’inizio, e così via. Altro conto è invece mostrare chiaramente di non tener conto di questi elementi, il che fa pensare ad una grave non consapevolezza.
Alle sede del convegno il luogo dove erano i bagni non era indicato e nei bagni non c’era neanche l’ombra della carta igienica e nulla per asciugarsi le mani. Ma soprattutto i bagni erano a oltre 50, forse 100 metri dalla sala del convegno. Ad esempio, se io fossi andato lì da solo con la mia auto e il mio deambulatore, come faccio spesso per i convegni in Toscana e dintorni, non sarei potuto andare in bagno ed avrei dovuto fare come i cani. Di sicuro un aspetto centrale della vita indipendente è quello di manifestare tutte le proprie necessità a chi fa l’assistenza personale. Non mi riesce di capire quali capacità ci siano di manifestare tutti i propri bisogni quando si trascurano aspetti così elementari.
Prima di addentrarci in altre questioni, mi rimane da osservare che una sessione nel pomeriggio era stata chiamata “tavola rotonda”, ma in realtà i relatori andavano al tavolo uno alla volta senza nessuna discussione tra di loro. E osservo questo certamente non per cercare il pelo nell’uovo, bensì perché ancora una volta viene data chiaramente l’immagine che si usino le parole tanto per fare.

Mi ha poi colpito molto che tutte le sessioni fossero presiedute da un/a non disabile, e, peggio ancora, quel/la non disabile commentava al termine della medesima ogni relazione di ciascun/a disabile.
Sicuramente lascerebbe molto perplessi un convegno per la liberazione dei neri presieduto da un bianco, e tanto più dove un bianco commenta ogni intervento di ciascun nero. Parimenti lascerebbe molto perplessi un convegno per l’emancipazione delle donne presieduto da un uomo, e tanto più dove un uomo commenta ogni relazione di ciascuna donna.
E poi mi chiedo: se, ad esempio, l’on. Battaglia, o la prof. che presiedeva il pomeriggio sono così bravi da capire tutte le mie esigenze per la vita indipendente, perché mi devo rompere le scatole ad organizzare io la mia assistenza personale e non lasciare invece che lo facciano loro?
Ma, al di là di queste battute, purtroppo assai facili, ci sono delle considerazioni a mio parere assai drammatiche da fare.
In primo luogo, un grosso problema contro cui deve cozzare il movimento per la vita indipendente è che (più o meno in buona fede) i disabili vengono ritenuti incapaci di prendere da sé una serie di decisioni. Se però sono già i disabili stessi a chiedere che ci sia il “babbo” o la “mamma”, che presiede il convegno e ci conferma quali sono le cose giuste che diciamo, allora siamo noi i primi che diciamo di essere inferiori. E questo mentre, per far sì che la vita indipendente si affermi, è di essenziale importanza che siamo noi disabili a dare agli altri l’immagine di noi come esseri capaci di prendere le nostre decisioni, di dirigere le nostre azioni, di avere le nostre sicurezze.
Probabilmente si può dire che, insieme a quello delle risorse, il tema centrale della vita indipendente è quello di mettere al centro dell’attenzione i bisogni veri dei disabili, ed in particolar modo la libertà di autodeterminazione del soggetto (disabile).
Innanzitutto c’è chi non tiene conto in mala fede dei bisogni veri del disabile e delle libertà fondamentali del disabile. Di fronte a queste persone, se siamo noi, di nostra iniziativa, a delegare ai non disabili dei ruoli fondamentali, per certi versi anche di “tutela”, è evidente che è come dire loro: state tranquilli, il nostro è solo fumo, in realtà potete continuare a fare come sempre.
In secondo luogo, anche nel campo dell’assistenza, ci sono pure numerose persone che, in buona fede, sono vittime dei pregiudizi e dell’ignoranza, che in questa società vengono creati nei confronti dei disabili, e più in generale per quanto riguarda il rispetto degli altri.
Proprio in questi giorni riflettevo sul fatto che quando i politicanti ci negano le risorse, oppure quando alle prestazioni assistenziali indispensabili per la sopravvivenza, viene negata la veste giuridica di diritti soggettivi perfetti, in primo luogo lorsignori mostrano un’enorme cattiveria ed uno spaventoso egoismo individuale, senz’altro indice anche di una grande incapacità di capire i valori veri della vita. Va però anche detto che lorsignori non lo sanno neanche da lontano quali sono le difficoltà pratiche della vita vera a dovere, ad esempio, gestire l’assistenza personale in presenza a disabilità gravissime. Se non siamo noi ad avere la forza di imporre la verità su questo, è certo che non ne usciremo mai.
Ai fini della vita indipendente è perciò essenziale che siamo noi a dare a queste persone l’immagine giusta di noi stessi. Più in particolare, se non siamo noi a dire loro quali sono i nostri bisogni, loro non potranno saperlo mai, e quindi non potranno mai metterci al centro del loro lavoro. Ancor più esplicitamente, se non siamo noi a dire loro quali sono le nostre scelte di vita e il modo in cui intendiamo esercitare le nostre libertà fondamentali, loro non potranno saperlo mai.
Chiaramente, se deleghiamo compiti rilevanti riguardo alla nostra autodeterminazione a persone non disabili, continuiamo a dare agli altri l’immagine che non vogliamo veramente o non riusciamo ad autodeterminare la nostra vita, che facciamo questi discorsi poco più che per riempire le nostre giornate.
Infine, ma più importante di tutto, c’è il fatto che, per forza di cose noi disabili siamo le prime vittime dell’ignoranza e della non consapevolezza a cui ci costringe questa società. È un discorso duro, difficile, che, ad una prima lettura, può spingere al rifiuto, ma è la crudele realtà. Il fatto è che la consapevolezza di sé e le proprie preferenze non sono innate, ma si acquistano con il crescere. Basti pensare al bambino, che inizia a conoscere il proprio corpo o all’adolescente, che inizia ad uscire di casa da solo. Purtroppo a molti disabili vengono negate troppe di queste possibilità. Così, quando feci una dura lotta per avere la patente di guida, ci tenevo sicuramente tanto ad averla. Ma dopo mi sono accorto che avevo solo un’idea molto pallida della ricchezza di opportunità che mi sarei perso se non fossi riuscito ad ottenerla.
A volte, ai corsi per assistenti personali, ho fatto un esempio: un disabile a cui è stato sempre fatto il bagno da altri a modo loro, non può sapere come sarebbe un bagno fatto a modo suo. E gli esempi potrebbero essere moltissimi altri. Altro esempio potrebbe riguardare il fatto che un disabile, costretto sempre a chiedere i favori agli altri, potrebbe non avere la forza per esprimere quelle che sono le proprie scelte. È un discorso sul quale ci si potrebbe scrivere un libro, il fatto è che bisogna imparare ad esprimere i propri bisogni. Per molti versi è quello che viene definito dalla parola inglese “empowerment” difficile da tradurre in italiano, ma giustamente molto in voga in molti testi e discorsi sulla disabilità, e tanto più sulla vita indipendente.
Si può dire che senza empowerment non ci può essere vita indipendente. L’empowerment va però imparato. Se deleghiamo ai non disabili le presidenze ed i commenti ai nostri discorsi, non solo diamo un’immagine di noi come esseri non indipendenti, ma non impariamo neanche mai a diventare indipendenti. Certo, un bambino, quando inizia a camminare, qualche volta cade, e magari si mette a piangere, ma senza questo non imparerebbe mai a camminare.
Capisco la ragionevole intenzione di approfittare dell’opportunità di un convegno per ingraziasi le simpatie di quelli che contano. Però c’è modo e modo di entrare nelle simpatie altrui. E, almeno dal mio modo di vedere le cose, è moto triste che nessuno abbia rilevato niente sul ruolo attribuito ai non disabili.
Tralascio qui di entrare nel merito di tutto quello che è stato detto nel convegno perché il discorso si farebbe troppo lungo. Mi permetto però di osservare che l’Onorevole che è intervenuto, nel riportare acriticamente l’affermazione secondo cui per i disabili ci sarebbero molte più agevolazioni che per altre minoranze, ha mostrato chiarissimamente di non capire nulla della disabilità, se non altro perché un barbone o un rom possono perlomeno sdraiarsi a terra per dormire, evitare di doversi fare i propri bisogni addosso e bere un sorso d’acqua ad una fontana pubblica, mentre un disabile gravissimo, senza assistenza, non può fare nemmeno questi atti elementari per la sopravvivenza. Per cui, volendo agire seriamente per la non discriminazione e il diritto alla vita indipendente, mi chiedo che senso abbia decidere di sviluppare un discorso con un elemento del genere.
C’è poi chi si arrabbia, o “scappa”, quando mi permetto di fare alcune critiche. Anziché rispondere punto per punto, magari contestando cose sbagliate o non condivisibili che, anche io, come tutti, posso scrivere o dire. Purtroppo mi sembra un atteggiamento tipico da bambini, estremamente insicuri e/o per niente amati, che di fronte a qualsiasi critica si mettono a piangere o scappano. Ovvero devo con molta tristezza rilevare che resta difficile perfino fare come il ragazzino che inizia a crescere con alcune sicurezze e che risponde prontamente quando si sente sgridato ingiustamente.
In altre parole, ci sono anche molte riviste, di solito anche molto costose, dove studiosi, anche insigni, esaminano i vari aspetti dell’attività umana , nel mettere in luce i pregi ed i difetti, e magari si criticano anche tra di loro. Tutto questo perché nessun essere umano è perfetto, nessuno è Dio, e la critica reciproca (purché onesta) è indispensabile per la crescita individuale e collettiva. E si può anche tranquillamente dire che senza critica non c’è crescita e non c’è evoluzione. Potrei anche ringraziare alcune persone per le dure e preziosissime critiche che mi fecero nella mia gioventù, ma qui si andrebbe troppo lontano.
Perciò, vedere come si scappa davanti ad alcune osservazioni che mi permetto di fare mi induce a ritenere che in realtà si vuole rimanere disabili, ovvero si vuol continuare ad essere trattati da disabili, intendendo questo sostanzialmente secondo il “modello sociale” della disabilità accolto nella Convenzione Onu sui disabili. Oppure vuol dire che si ha paura a non essere trattati più da disabili, oppure mi resta molto difficile riuscire ad arrivare a ciò. Naturalmente tutto questo è ampiamente comprensibile perché uscire dalla disabilità (intesa nel senso appena accennato) è un percorso molto difficile e doloroso. Però, se non si affronta questo, la vita indipendente si affermerà soltanto in apparenza.
Il discorso sarebbe lunghissimo, anche se di essenziale importanza, per cui, per il momento mi devo fermare qui.
Sicuramente viene consentito di parlare di vita indipendente nei termini che ho visto a Roma, così come viene ben consentito di dire che la Chiesa cattolica è cristiana e così come viene detto che nell’URSS c’era il comunismo.
A me sembra però che abbiamo una strada molto lunga da fare per far sì che in Italia si affermi veramente l’autodeterminazione di chi viene reso disabile dalla collettività. Avendo sempre ben presente che, pur a seguito del “modello sociale” della disabilità accolto anche nella Convenzione Onu sui disabili, il vero problema è l’arduo compito di superare la disabilità.

Raffaello Belli