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  Per quanto riguarda le linee guida del Ministero dell'ottobre 2014 ad un primo sommario esame si rilevano una serie di punti che paiono cozzare palesemente, se non altro, con i principi fondamentali della Costituzione e della Convenzione dell'Onu sui disabili.

  In primo luogo il testo è stato diffuso in PDF formato immagine, cioè il più difficile per i non vedenti.    Non ci voleva niente ad un minimo di attenzione in più.    Tanto per dare un’idea del livello a cui sono.

 

  Al punto 3.1 delle linee guida è previsto che per i servizi per la vita indipendente vengano stabiliti criteri per “l'autorizzazione, funzionamento, riconoscimento, accreditamento”.

  Il fatto è che la vita indipendente è prima di tutto la possibilità di esercitare in concreto i diritti inviolabili nonché, fra i quali, aspetti privatissimi della propria intimità.    Fra queste libertà inviolabili c'è innanzitutto la libertà personale, poi la libertà di movimento, di manifestazione del pensiero, ecc.     Si tratta di diritti il cui esercizio è assolutamente insindacabili da chicchessia, e quindi anche dalla pubblica amministrazione.    Inoltre, il principio fondamentale, sia della Costituzione che della Convenzione Onu sui disabili, è l'eguaglianza.    E nessuna persona normodotata è sottoposta a criteri minimi, ad autorizzazioni, a riconoscimenti, ecc. su come intende lavare le proprie parti intime, sui criteri per decidere a quali manifestazioni pubbliche partecipare, sullo stabilire quando e come manifestare il proprio pensiero, ecc.    In più, per chi ha gravi disabilità, si tratta spesso di persone particolarmente vulnerabili e/o che è particolarmente agevole condizionare per via della notevole dipendenza materiale.    Per questi motivi, l'insindacabilità in tema di diritti fondamentali e di intimità è particolarmente importante per la vita indipendente di queste persone.

  A tutto questo va aggiunto che tutta la letteratura internazionale in tema di assistenza personale stabilisce che ci sia la totale libertà di scelta da parte dell'utente e che sia il singolo disabile a fare la selezione e la formazione.

  Inoltre, chi ottiene autorizzazioni e accreditamenti, di solito si fa pagare di più di chi non ha tutto ciò.    Poiché, per di più, tali autorizzazioni sono controproducenti ai fini della vita indipendente, ne consegue che questo punto è anche incompatibile con il fatto che i fondi erogati sono ampiamente insufficienti rispetto alle necessità.

  Pertanto per i servizi per la vita indipendente non devono essere stabiliti criteri per ”l'autorizzazione, funzionamento, riconoscimento, accreditamento”.

  In tutte le esperienze serie di vita indipendente è indispensabile e pacifico che i disabili possono scegliere senza limiti le prestazioni di cui hanno necessità.  La selezione della qualità si ottiene non con un filtro da parte della pubblica amministrazione ma lavorando sulla consapevolezza da parte delle persone disabili. Questo per 2 motivi. Uno specifico, e cioè che solo il singolo disabile è sovrano assoluto della propria intimità e dei propri diritti inviolabili.  Il secondo motivo più generale, e cioè che oggi è ormai pacifico che i disabili sono esperti in tema di servizi per superare la disabilità molto più degli organi della pubblica amministrazione.

 

  In più punti delle linee guida si fa riferimento al coinvolgimento dei disabili e delle loro famiglie.    Il fatto è che un elemento fisiologico assolutamente naturale in tutta la vita animale, compresi quindi sia gli animali umani che quelli non umani, è il distacco dei figli dai genitori ad una certa età.  Impedire questo significa negare un principio basilare della vita. Perciò un elemento essenziale della vita indipendente deve essere il distacco anche dei figli (disabili) dai genitori. Fra l'altro è essenziale che le persone, fin dall'adolescenza, inizino gradualmente ad imparare a staccarsi da genitori.  È evidente che tutto questo deve valere anche per chi ha gravi disabilità. Negare, impedire, ostacolare questo distacco, significa violare gravemente il principio di eguaglianza.

  Dunque in tema di vita indipendente vanno coinvolti solo i disabili direttamente interessati.    Il coinvolgimento dei  genitori è legittimo, ma soltanto con le opportune cautele, alle quali non si fa cenno nelle linee guida, esclusivamente per i disabili minorenni e per i disabili per i quali un genitore è stato nominato amministratore di sostegno o tutore.

 

  In varie parti delle linee guida, a proposito dell'“abitare in autonomia”, si fa riferimento a “piccoli gruppi di persone”, “su base comunitaria”, “cohousing”, “gruppi appartamento”.

  Il fatto è che l’art. 19 della Convenzione Onu sui disabili stabilisce che la vita indipendente è “vivere nella comunità, con la stessa libertà di scelta delle altre persone …… le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa”.

  Viceversa in Italia, al momento attuale, le persone che vivono nelle forme abitative elencate dalle linee guida in media saranno una su diecimila o una su centomila. Di conseguenza vi è legittimità giuridica soltanto se alle suddette soluzioni abitative viene destinato meno dello 0,1% dei fondi per la vita indipendente.

  Il fatto poi che in tutte le linee guide si tratti spesso delle suddette soluzioni abitative, mentre non si tratta mai di abitare da single (forma questa oggi molto diffusa fra le persone normodotate) e nemmeno di abitare con il proprio partner (forma questa prevalente nell'Italia contemporanea), induce a ritenere che vi siano una precisa volontà discriminatoria, e/o gravi inammissibili pregiudizi, nei confronti di chi ha grave disabilità.

  In altre parole è ragionevole dedurre da quanto riportato qui sopra l'intenzione del ministero di puntare nuovamente agli istituti. Istituti un pochino diversi da quelli del passato, magari più piccoli, ma nella sostanza istituti.  È evidente che questo è inammissibile.

 

  Nelle linee guida si fa riferimento ai “centri dell'autonomia”, “centri per la vita indipendente”, “percorsi formativi”.

  Il punto è assolutamente fondamentale. Solo che tutta la letteratura internazionale sottolinea che è essenziale che tutto ciò venga diretto e condotto da persone con gravi disabilità, consapevoli della propria autodeterminazione. Viceversa tutte le linee guida del Ministero tacciono su questo.  È come se si consentisse o si auspicasse che centri per l'autodeterminazione delle donne venissero diretti e gestiti da uomini.  Ciò è inammissibile sotto molti punti di vista, non ultimo il fatto che la Convenzione Onu sui disabili è il primo documento internazionale scritto sotto la direzione di chi ha gravi disabilità.

 

  Al punto 3.2.3 si tratta di assistente personale, mentre quasi sempre si deve trattare di assistenti personali.

 

  In più punti delle linee guide si tratta di ricorrere alla domotica quale aiuto per chi ha gravi disabilità.  Il fatto è però che la maggior parte delle funzioni essenziali della vita non possono essere affrontate con la domotica.  Perciò, è grave che in tutte le linee guida non venga chiarito che la domotica deve essere in subordine alle esigenze di assistenza personale del disabile.

 

  Per la vita indipendente nelle linee guide vengono stabiliti limiti di età 18-64 anni.

  In primo luogo, si osserva che il limite di 64 anni non tiene neppure conto delle innovazioni introdotte dall'ultima riforma delle pensioni.

  Inoltre, tali limiti di età violano alcuni principi basilari della Costituzione.

  Per quanto riguarda i 18 anni, nella vita umana c'è il periodo dell'adolescenza, assolutamente cruciale per il pieno sviluppo della personalità. In tale periodo, è di cruciale importanza che il giovane impari gradualmente ad essere indipendente. È evidente che in tale età non vi possa essere la totale indipendenza. Però in questi anni negare graduali ampi spazi di autodeterminazione significa causare gravi danni al pieno sviluppo della persona.

  Questo di negare l'adolescenza (perché questa è la sostanza del problema) a chi ha determinate difficoltà è uno dei canali principali per condizionare gravemente l'esistenza di queste persone e costringerle a vivere da disabili per tutta la vita.

  Pertanto, negare la vita indipendente prima dei 18 anni è una grave discriminazione in riferimento sia alla Costituzione che alla Convenzione Onu sui disabili.

  Il limite dei 64 anni costituisce anch'esso una grave discriminazione a danno dei disabili. Questo perché è diritto fondamentale dell'individuo vivere il più a lungo possibile e nelle migliori condizioni psico-fisiche possibili.  È ampiamente noto che, a tal fine, è indispensabile mantenere uno stile di vita il più attivo possibile.  È evidente che, nella realtà vera della vita concreta, togliere la vita indipendente alla fine dei 64 anni significa costringere i disabili di quell'età a non uscire più o quasi di casa.    Insomma, esattamente l'opposto di ciò che è doveroso fare nei confronti delle persone di quell'età.    Il limite d'età di 64 anni indica perciò l'inammissibile volontà di accompagnare il disabile grave ad una morte precoce.

 

  Al punto 3.3 si fa riferimento alle condizione economiche.    Il punto è inammissibile per molti motivi.    Su questo punto è in corso di pubblicazione un mio volume.

 

  Al punto 9 si richiede la rendicontazione di tutte le spese effettuate.

  In primo luogo, la totale rendicontazione non è prevista nemmeno in Svezia per cifre che arrivano molto, ma molto più alte della quasi totalità di quelle finanziate con questi fondi ministeriali. Non è prevista perché ci sono comunque delle spese che non è possibile rendicontare.

  In secondo luogo, l’esiguità dei finanziamenti individuali rende altamente probabile che si tratti di erogazioni insufficienti.  Ma soprattutto, tanto più le erogazioni sono insufficienti e quanto più è probabile che il disabile sia costretto a ricorrere ad assistenti personali estemporanei a fare da tappabuchi, e queste spese possono non essere documentate.

  Insomma, con finanziamenti di questa limitatissima entità, la tutela dei diritti inviolabili dell’individuo è incompatibile con la rendicontazione.  È dunque indispensabile che questa venga sostituita con l’autocertificazione per grandi voci.

 

  Sempre al punto 9, l'erogazione dei finanziamenti è subordinata all'effettiva disponibilità delle risorse finanziarie sul capitolo di spesa.    Poiché si tratta di finanziamenti indispensabili per l'esercizio dei diritti fondamentali, il comportamento giuridicamente legittimo è solo quello esattamente opposto, e cioè che è dovere dell'autorità preposta far si che tali disponibilità finanziarie esistano realmente e sempre.

Raffaello Belli

 

  Nel corso dell'incontro estemporaneo del 16 settembre u.s. nell'ambito della V Conferenza nazionale sulle politiche per la disabilità, la sottosegretaria al Welfare Biondelli aveva richiesto ai presenti a tale incontro un documento che spiegasse cosa si intende per “vita indipendente”.

  Pubblichiamo di seguito il documento già fatto pervenire alla sottosegretaria Biondelli.

  È possibile scaricare il file del documento posto in fondo a questo articolo.

 

 

Definizioni e contenuti della "vita indipendente" o "vita autodeterminata" per le persone disabili

 

  "Vita indipendente" non è un semplice modo di fare diversamente la tradizionale assistenza personale, né vivere comunque fuori dal nucleo familiare di origine.  "Vita indipendente" significa che anche i "disabili" hanno il diritto nonché la capacità – se fornite degli aiuti necessari e adatti a ognuno – di vivere come le altre persone, indipendentemente dall’età.

  In tal senso, va citato quanto autorevolmente sostenuto dal Presidente della Repubblica nel suo messaggio alla V Conferenza nazionale sulle politiche per la disabilità: "La vita indipendente di ogni cittadino è infatti il presupposto dell'inclusione sociale e del pieno esercizio dei suoi diritti".

 

Assistenza personale autogestita prerequisito essenziale per la vita indipendente

  Le persone con gravi disabilità necessitano dell'aiuto di altre persone per compiere atti che sono spazi insopprimibili della libera autoorganizzazione della vita individuale quali, fra l'altro, alzarsi da letto, lavarsi, vestirsi, bere, mangiare, andare in bagno, gestire la casa, uscire, svolgere attività di studio o di lavoro, relazionarsi con altre persone, esercitare il ruolo di genitore, comunicare con gli altri, esprimere i loro desideri e pensieri seppur in modi diversi da quelli di “norma”, partecipare alla vita collettiva sociale e politica,vedere o sentire in modi alternativi, formarsi e manifestare il proprio pensiero, godere del tempo libero, coricarsi.

  L'assistenza personale autogestita consiste nella disponibilità di personale – pagato e gestito dal singolo utente con soldi pubblici a ciò specificamente destinati – per aiutare la singola persona disabile a compiere quelle operazioni (alcune sono elencate poco sopra)che la persona disabile ritiene di non poter fare da sola.

  L'assistenza personale autogestita risponde ad esigenze non sanitarie, e va distinta da quella infermieristica, che fornisce risposte medicalizzanti.  Si può parlare di assistenza personale solo se la persona con disabilità ha la possibilità di avere un totale controllo sui propri assistenti.  Con la parola controllo si intende una serie di sottoarticolazioni quali, fra l'altro: la scelta del proprio assistente, la possibilità di scegliersi l'assistente più appropriato rispetto alle situazioni che di volta in volta si manifestano, in piena libertà e senza l’obbligo di limitarsi a elenchi definiti, la possibilità d'istruirlo, di decidere mansioni ed orari e se e quando licenziarlo.

  Per la vita indipendente, solo il singolo disabile può decidere quali assistenti vanno bene per lui, o lei.  Quindi, obbligare i singoli disabili a farsi aiutare solo da assistenti personali accreditati dalle istituzioni è uno dei modi per trasformare la vita indipendente peggio che in una prigione.

 

Le libertà inviolabili

  La vita indipendente è dare i soldi ai singoli disabili per la propria assistenza personale, in modo che siano loro a decidere della propria vita come tutti.  Non è dare i soldi a cooperative e associazioni creando così nuovi centri di potere.

  Vita indipendente è vivere come gli altri, cioè nelle stesse condizioni di libertà secondo i principi degli articoli 2 e 3 della Costituzione.    Quindi, vita indipendente non deve significare che – attraverso le "fondazioni di partecipazione" – le istituzioni preposte all'assistenza sociale si approprino di ciò che i genitori ci lasciano dopo aver fatto enormi sacrifici.

  La Convenzione Onu sui diritti delle persone disabili è molto chiara sul fatto di vivere come gli altri.  In Italia, quasi tutte le persone vivono in normali appartamenti con il proprio partner o da soli.  Quindi, vita indipendente non è “co-housing” obbligatorio né nuove strutture residenziali.

  La vita indipendente è una questione di libertà fondamentali e inviolabili riconducibili all'articolo 2 della Costituzione.

  Cioè a dire che, nonostante la presenza di alcune difficoltà fisiche, mentali, sensoriali o psichiche, è di estrema importanza poter esercitare in concreto nella vita quotidiana le libertà fondamentali garantite come inviolabili dalla Costituzione e da altri testi sovranazionali e internazionali.

  Ad esempio, andare a letto la sera all'orario scelto dal soggetto è senza dubbio un elemento fondamentale della libertà personale, che viene negato soltanto a chi è in carcere.   Però, se un “disabile” ha necessità di assistenza personale per andare a letto, e questa non è concretamente disponibile all'orario scelto dal soggetto, al “disabile” viene negata tale libertà fondamentale.

  Anche poter scegliere quale cibo comprare e come cucinarlo è una questione di libertà fondamentali.  Pure questa è negata solo ai carcerati.  Però, se un “disabile” non ha l'assistenza personale idonea nella quantità e nella qualità, questa libertà personale viene negata al “disabile”.

  E ancora, poter partecipare ad una manifestazione politica è senza dubbio un diritto fondamentale garantito a tutti, se non altro, da varie disposizioni costituzionali.   Di sicuro, ognuno dei maggiori partiti politici avrebbe molto da ridire se, ad esempio, organizzasse una manifestazione politica in un determinato luogo e, per risparmiare, le aziende di trasposto pubblico locale cancellassero tutte le linee dell'autobus che vanno in quel luogo negli orari attinenti a tale manifestazione.  Però ad un “disabile” viene negata in concreto la possibilità di esercitare tale diritto fondamentale se, per risparmiare, gli viene negata l'assistenza personale.

  E così pure è una libertà fondamentale non essere costretti ad avere in casa propria in maniera persistente persone che risultano insopportabili.  Anche questo non accade con la vita indipendente, ma può accadere con l'assistenza personale inviata dagli enti preposti.

  Un altro aspetto fondamentale della libertà personale è poter avere l'igiene intima come desidera il soggetto stesso.  È un diritto fondamentale, che viene garantito anche agli ergastolani e pure a chi si trova nel braccio della morte nelle prigioni degli Stati Uniti.  Ma questo diritto viene negato al “disabile”, se non gli viene consentito di avere l'assistenza personale secondo i canoni della vita indipendente.

  Da tutto ciò consegue che le istituzioni non possono e non devono trattare i singoli disabili gravi in enorme difficoltà con un fiscalismo che forse la guardia di finanza usa nei confronti delle imprese commerciali.

  Ed è altrettanto chiaro che – trattandosi di esercitare in concreto i diritti inviolabili – la vita indipendente non può sottostare a limiti di età.

 

È anche una questione di salute mentale

  Ogni persona normodotata si lava, si veste, ecc. come vuole in automatico, senza doverci pensare, e senza doverlo dire ad alta voce.    Questo diritto fondamentale è acquisito come garantito ad ogni persona normodotata, compresi gli ergastolani e i reclusi nel braccio della morte.

  Viceversa, per ottenere di lavarsi e vestirsi come desidera, un “disabile” deve pensarci in ogni dettaglio e dirlo all'assistente in ogni dettaglio.

  A ciò va aggiunto che, se l'assistente ha un modo d'intendere le cose radicalmente diverso da quello desiderato dal “disabile”, può essere comunque impossibile ottenere quanto desiderato più che legittimamente dal “disabile”.  In più, se l'assistente non ha determinate capacità di capire e rispettare il prossimo, per potersi lavare e vestire come desidera, il “disabile” può trovarsi costretto a doverlo dire in continuazione tutti i giorni.

  È evidente che in tal modo ne va di mezzo la salute mentale del “disabile”, per cui spesso il “disabile” non ce la fa, e viene violato nell'inviolabile.  Basta rifletterci seriamente per rendersi conto di questo.  Ciò può accadere con l'assistenza decisa da altri, ma non accade con la vita indipendente.

  A questo punto, dovrebbe essere molto evidente che è assolutamente contro la Costituzione stanziare 90 milioni di € per il "dopo di noi" e 15 milioni di € per tutti i disabili che in Italia vogliono fare vita indipendente.

 

Non può esserci la delega

  Dunque il tema della vita indipendente non può essere delegato ad altri.  Ovvero soltanto il diretto interessato può decidere in tema di vita indipendente, cioè sulle qualità e quantità necessarie per l'assistenza personale, gli ausili, l'accessibilità, ecc..

  In altre parole, se si tratta di decidere il percorso di una nuova strada, di una nuova linea di bus, ecc., forse può essere legittimo ascoltare i diretti interessati e riportare la sintesi dell'ascolto attraverso dei rappresentanti, che possono trovarsi a dover raggiungere dei compromessi.

  Viceversa, se si tratta di come il singolo soggetto si vuol lavare, vestire, mangiare, partecipare ad attività politiche o socioculturali ecc., è evidente che nessun rappresentante può decidere per lui, e tanto meno raggiungere dei compromessi al suo posto.  È una materia in cui può decidere solo il diretto interessato.

  Ad esempio, le rappresentanti femminili presenti nel Governo e nel Parlamento potrebbero forse essere interessate se altri colleghi maschi, eventualmente esperti in materia, illustrassero le caratteristiche chimiche e fisiche di differenti assorbenti femminili.  Ma nessuna di queste rappresentanti femminili accetterebbe che un collega decidesse per lei quale assorbente femminile deve utilizzare.  In altre parole, quando si tratta di libertà inviolabili, la delega non regge, vale solo il diretto interessato.  E soltanto questa persona è la vera esperta nello specifico.

  In tal senso, deve essere tenuto nella massima considerazione anche il fatto che la Convenzione dell'Onu sui diritti delle persone disabili è la prima ad essere stata scritta dai diretti interessati.   L'Onu ha pagato i viaggi e i soggiorni a New York di tanti “disabili” (e dei loro assistenti personali), perché è stato ritenuto dovessero esser loro in prima persona a scrivere la Convenzione.  E alla fine il presidente del Comitato ad hoc, che ha steso la Convenzione, ha sottolineato che è stato decisivo il ruolo dei “disabili”.

  Questi sono alcuni dei motivi fondamentali per cui il significato della vita indipendente – o il suo contenuto, sia teorico che concreto – non può essere stabilito dalle persone “normo-dotate”.  Si tratta di una questione ormai acquisita pacificamente a livello internazionale.

  Quindi, è inammissibile che le recenti Conferenze – regionale della Toscana e nazionale – svoltesi a Firenze nel mese di settembre 2016 siano state organizzate senza avere cura che almeno sulla vita indipendente sia i relatori sia il pubblico fossero composti da disabili che la praticano o cercano di praticarla.

 

I diritti inviolabili non possono essere soggetti a compartecipazione alla spesa

  Alla luce di tutte queste considerazioni, è agevole dedurre che il lavoro degli assistenti personali costituisca spesso il solo modo per garantire ai disabili l'esercizio concreto dei diritti di libertà che la Costituzione riconosce e garantisce a tutti i cittadini.  Ne consegue che tale lavoro vada un minimo riconosciuto.

  Perciò, non è affatto eccessivo sostenere che – per fare davvero vita indipendente e svolgere appieno tutte le azioni della vita – ad un “disabile” con molte necessità di assistenza personale possano occorrere anche € 150.000.00 annui.  E, trattandosi di garantire l'attuazione in concreto dei diritti umani, l'assistenza personale per la vita indipendente non deve essere considerata un aiuto al reddito.  Di conseguenza, anche considerati tutti gli altri maggiori costi che la presenza di gravi disabilità impone ad una persona per vivere in condizioni di libertà comparabili con quelle delle altre persone, le prestazioni di assistenza personale per la vita indipendente non possono essere assoggettate alla compartecipazione alla spesa.   Si veda in proposito il libro di Belli "Vivere Eguali", Franco Angeli editore, 2014.  Il volume è frutto di una ricerca commissionata da ENIL Italia all'Istituto di teoria e tecniche dell'informazione giuridica del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

 

Contro le imposizioni

  Sia chiaro che, come a suo tempo Adolf Ratzka disse ai servizi sociali svedesi, noi non vogliamo imporre a nessuno la vita indipendente.  Il fatto è che democrazia è rispetto dei diritti fondamentali di tutti, anche qualora siano delle minoranze.  Se poi altri hanno necessità dei tradizionali istituti sotto una nuova veste, noi non vogliamo imporre nulla a loro.  Però, non si deve imporre niente neanche a noi.  E, per non imporlo, devono essere stanziate risorse adeguate per garantire concretamente i diritti fondamentali e rendere effettiva la libertà di scelta.

 

Agenzie per la vita indipendente

  In tutti i Paesi in cui la vita indipendente è realtà consolidata, esistono e funzionano centri o agenzie per la vita indipendente gestiti solo da persone con disabilità con esperienza diretta in materia.  Ciò perché, per poter vivere in modo indipendente con le “disabilità”, le difficoltà da superare sono molte e in tutto il mondo il sostegno di queste agenzie si è dimostrato essenziale.

  Tra le attività di tali agenzie o centri per la vita indipendente, una delle più fondamentali consiste nel fornire "consulenze allapari".

  Il Movimento internazionale per la Vita Indipendente sostiene che solo persone con disabilità possono dare ad altre persone con disabilità consigli utili e corretti su molti aspetti importanti per condurre una vita autodeterminata, quali come scegliere assistenti personali e come comportarsi con loro, scelta e uso degli ausili tecnici, equilibrio tra assistenza personale e mezzi tecnici per far le cose da soli, ecc..  La vita autodeterminata si intende anche per persone con disabilità cognitive e psico-socali.  Ciò si ottiene in modi alternativi a quelli “di norma” e che tradizionalmente vengono in automatico in mente e la presenza di un assistente personale preparato e formato per aiutare la persona disabile a prendere decisioni importanti senza imporle né prenderle al posto di essa è fondamentale ed è la chiave per ottenere tale vita autodeterminata.  Tutto ciò si basa sul postulato che i consigli sono più sicuri e credibili se dati da chi vive o ha vissuto in condizioni simili a quelle di chi li riceve.  Non vediamo perché tale principio comunemente accettato non debba valere per le persone con disabilità.

  La condizione di persone con disabilità è requisito indispensabile ma non sufficiente.  I "consiglieri allapari" sono persone con disabilità con esperienza e competenza adeguate e proprio per questo capaci di fornire consulenze ed informazioni utili e corrette ad altre persone con disabilità.

  Altre attività molto importanti delle agenzie per la vita indipendente sono l'aiuto ai singoli disabili per la gestione burocratica degli assistenti personali, l'organizzazione di incontri di autoconsapevolezza dei disabili, la tenuta di elenchi di persone disponibili a lavorare come assistenti personali, organizzazione e svolgimento di specifici corsi di formazione rivolti a queste ultime tenuti in prevalenza da docenti con gravi disabilità.

  È necessario che anche in Italia si attivino e finanzino agenzie per la vita indipendente con tali caratteristiche.

  A tal proposito, si segnale che nel 1999, sulla base di un progetto cofinanziato da Unione Europea e Regione Toscana, l'Associazione Vita Indipendente ONLUS della Toscana aprì un'agenzia di questo tipo che attualmente non può svolgere adeguatamente il suo ruolo per mancanza di finanziamenti.

 

 

Network Europeo sulla Vita Indipendente ENIL

 

ENIL Italia ONLUS

 

Associazione Vita IndipendenteONLUS

 

AssociazioneToscana Paraplegici ONLUS

 

AssociazioneParaplegici Aretini ONLUS

 

Associazione Paraplegici Livorno ONLUS

 

Comitato lombardo per la vita indipendente

 

Associazione Vita IndipendenteBassa Val di Cecina ONLUS

 

Centro Studi e Documentazione sull'Handicap  -   Pistoia

 

AssociazioneParaplegici Siena ONLUS

 

Habilia ONLUS

 

 

 

 

 

La legge regionale del Molise 19 novembre, n. 18, “Interventi regionali per la vita indipendente”, attualmente è unica in Italia. Inoltre anche a livello europeo sono pochi i testi legislativi di questo tipo. Perciò si ritiene necessario esaminare in dettaglio tale testo di legge.

Premessa

Prendendo la Costituzione sul serio

Qualora da un lato venissero presi veramente sul serio gli artt. 2 e 3 Cost. e dall’altro si facesse riferimento alla realtà concreta della vita di moltissime persone disabili, si vedrebbe che, in larga misura, viene riservato loro ancora un trattamento di netta inferiorità rispetto alle altre persone, soprattutto per quanto riguarda i cosiddetti “servizi sociali”.
E questo nonostante che, fra l’altro, la Corte costituzionale abbia stabilito che "sul tema della condizione giuridica del portatore di handicaps confluiscono un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale" (Corte costituzionale, sentenza del 3 giugno 1987, n. 215) e che le possibilità di vivere consentite alle persone disabili sono riconducibili ai valori fondamentali tutelati dall'art. 2 Cost. (Corte costituzionale, sentenza del 2 giugno 1983, n. 163). Oltre al fatto che la discriminazione verso i disabili è vietata anche espressamente (legge 1 marzo 2006, n. 67), e nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili (ratificata dall’Italia con la legge 3 marzo 2009, n. 18) l’asse portante è proprio la non discriminazione di queste persone (Arnardóttir Oddný Mjöll, Quinn Gerard, 2009, passim).
Inoltre, se è corretto affermare, e senza dubbio condivisibile, che viene intaccata la dignità quando non c’è la possibilità di vivere i valori fondanti contenuti nell’art. 2 Cost. (Ruggeri A., 2011, p. 11), si può solo accennare ad un punto, che richiederebbe ben altra trattazione, e cioè che negare la vita indipendente alle persone disabili significa incidere sulla loro dignità. E quindi viene coinvolto anche il fatto che la dignità non è negoziabile (idem).

I diritti sociali

In via preliminare va chiarito che non si può che condividere la tesi secondo cui la vita indipendente non può essere affatto ricondotta ad un approccio liberistico ai servizi sociali (Morris J., 2005, pp.16-17 e 25). Il fatto è che, in particolar modo per i disabili, l’autodeterminazione, e quindi la possibilità concreta di esercitare le libertà inviolabili, non possono essere raggiunte senza i diritti sociali (idem, p. 26) perché limitarsi a riconoscere a tali persone la libertà di scelta non è sufficiente a consentire loro l’esercizio dell’autodeterminazione (idem, p. 32).
Del resto questo profilo non riguarda soltanto le persone disabili. È infatti di lunga data la dottrina secondo cui anche i diritti sociali sono diritti di libertà, sia perché liberano il singolo da ciò che impedisce la partecipazione (Calamandrei P., 1975, pp. XXXVII-XXXVIII.), e sia per il fatto che senza i diritti sociali le tradizionali libertà politiche possono diventare strumento di oppressione di una minoranza sulla maggioranza (idem), ovvero, guardando al fine, i diritti sociali sono diritti di libertà (idem). E pure l”a Carta dei diritti dell'uomo dell'Onu pone il diritto di stare al riparo dal bisogno sullo stesso piano dei diritti di libertà” (Carr E. H., 1952, p. 27.).

La vita indipendente

La nozione “vita indipendente” è un “nuovo approccio” (Zambrano V, 2010; p. 239) che riguarda la disabilità “a livello internazionale” (idem), è entrata nella lingua inglese negli anni ’70, dopo essere stata adottata dagli attivisti sulla disabilità degli USA (Barnes C., 2004, p. 7), rappresenta una sfida radicale al pensiero convenzionale sulla disabilità. (idem, p. 2) ed ha avuto un impatto notevole in tutto il mondo (idem, p. 7-8 e Evans J., 2003, p. 3). Tanto che è stata inserita tra i principi generali della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (Zambrano V, 2010; p. 240).
Ma l’analisi sarebbe troppo parziale se si omettesse di osservare che la vita indipendente è innanzitutto la manifestazione di un cambiamento fondamentale nell’atteggiamento verso i disabili avvenuto negli ultimi due decenni (Morris J., 2005, p. 5-6).
Il fatto determinante ai fini di questa analisi è che, per quanto riguarda la disabilità, la vita indipendente è sia l’approccio più avanzato (Evans J., 2003) che quello capace di tutelare maggiormente i principi fondamentali contenuti negli artt. 2 e 3 Cost.. 
Infatti, con la vita indipendente, “le persone con disabilità non sono più considerate come soggetti passivi” (Zambrano V., 2010, p. 240) e viene riconosciuto loro il diritto “vivere nella società con la stessa libertà di scelta delle altre persone” (idem) al fine di porle “nelle condizioni di autodeterminarsi” (idem).
Tutto questo perché la scelta (che è poi il punto fondamentale del concetto di vita indipendente) su come viene fornito l’aiuto per i bisogni assistenziali di una persona è strettamente connesso con i diritti umani (Morris J., 2005, p. 19) e con l’autodeterminazione, che è una parte cruciale della cittadinanza (idem, p. 21). È insomma davvero condivisibile che non può esserci cittadinanza senza autodeterminazione (idem, p. 24), laddove questa, intesa come assenza di coercizione o di interferenze nell’azione individuale (idem), è il più importante elemento della cittadinanza per i disabili (idem).
Per quanto riguarda il significato più specifico di questo approccio alla disabilità va evidenziato che il concetto di vita indipendente è estremamente semplice, perfino ”banale”, in quanto si tratta di far sì che anche le persone disabili possano godere delle libertà fondamentali. Libertà che sono poi alla base della vita. 
Più in particolare sembra indubbio che, fra i diritti tutelati come inviolabili dell'art. 2 Cost., c'è anche il diritto ad organizzare liberamente la propria giornata, cioè decidere liberamente quando alzarsi da letto, se e quando uscire di casa, quando nutrirsi, quando coricarsi ecc. (Belli R., 1994, 1708). Per cui sembra difficile escludere che negare la vita indipendente alle persone disabili significa incidere sulla loro libertà personale. Tanto più se è condivisibile la tesi per cui non bisogna vincolarsi ad una definizione eccessivamente rigida della libertà personale (Caretti P., 1994, p. 234).
E allora, anche se non vi è un esplicito riferimento all’assistenza personale, risulta in tutta la sua lungimiranza quell’autorevole e condivisibile dottrina giuridica secondo cui "la carenza delle potenzialità fisiche o l'esistenza di barriere architettoniche o tecnologiche" si risolve "in una concreta menomazione della libertà personale e di circolazione" (Pace A., 1990, p., 271, nota 2). 
Anche se poi, in verità, guardando alla storia dell’essere umano e al mondo contemporaneo, ci si rende conto con estrema facilità di quanto sia difficile, doloroso e costoso riuscire a vivere concretamente quei diritti fondamentali, che dovrebbero essere inviolabili. 
E proprio a ciò si collega l’altro lato della vita indipendente, quello difficile da realizzare in concreto. Il fatto è che “vita indipendente” non è una semplice diversità nell’erogare i servizi assistenziali al disabile. Si tratta invece di un diverso modo di concepire la persona (disabile) e di porla al centro dell’attenzione. Tant’è vero che c’è chi l’ha definita una rivoluzione copernicana (Serra T., 1989). 
Per consentire la comprensione da parte di chi affronta la questione per la prima volta, va accennato al fatto che l’assistenza personale è uno degli strumenti fondamentali (e molto spesso indispensabili) per consentire alle persone disabili di raggiungere la vita indipendente. L’assistenza personale è il sostegno e l’assistenza di cui un individuo ha bisogno al fine di vivere in condizioni di eguaglianza con gli altri e consente di superare le limitazioni con le quali si ha a che fare per via della menomazione (Evans J., 2003, p. 3).

Le libertà in concreto

Tutto questo però vuol dire che, se non ci si limita all’apparenza, bensì si punta al concreto, in realtà è complesso realizzare le condizioni affinché le persone disabili possano davvero vivere in maniera indipendente. 
È assai complesso sia perché un conto è enunciare le libertà in teoria, altro discorso è realizzarle in concreto. Ed è assai complesso per via del fatto che le persone disabili sono fra quelle a cui viene maggiormente negata la possibilità concreta di esercitare tali libertà, ed è quindi maggiore il lavoro da fare per raggiungere per lo meno un obbiettivo egualitario rispetto agli altri cittadini. 
D’altra parte non si può omettere di osservare che c’è il pieno rispetto del supremo principio di eguaglianza soltanto se tutti hanno pari opportunità di esercitare almeno i diritti inviolabili (Belli R., 1994, 1709).
Questa particolare situazione di notevole diseguaglianza nella possibilità concreta di esercitare le libertà inviolabili fa sì che sia particolarmente necessaria una conoscenza specifica di come agire in concreto affinché i disabili possano autodeterminare la propria vita. Mentre in realtà c’è ancora una comprensione limitata, nel mondo della politica e negli ambienti della ricerca, sul significato della vita indipendente e su cosa è necessario per realizzarla (Morris J., 2005, p. 37). Tanto da rendere necessario che le persone consapevoli della disabilità e della vita indipendente vengano incluse nei dipartimenti governativi a tutti i livelli, nazionale, regionale e locale (Barnes C., 2004, p. 13).

I Centers for Independent Living (CILs)

Il problema è ben conosciuto a livello internazionale tanto che, per rendere concreta la possibilità di autodeterminare la propria vita, ad esempio, negli Stati Uniti d’America ci sono oltre 200 CILs (Centers for Independent Living) ed anche nell’Europa centro settentrionale ci sono molte realtà di questo tipo. In tutti i casi si tratta di organizzazioni, gestite e controllate esclusivamente dai disabili stessi (idem, p. 7), quasi sempre finanziate (direttamente o indirettamente) dalle autorità pubbliche, con il compito principale di fornire consulenze appropriate alle persone disabili per consentire loro la vita indipendente. Evidentemente, in tutti i paesi dove l’autodeterminazione dei disabili si va affermando, si ritiene essenziale un’approfondita conoscenza di come sia possibile realizzare tutto ciò in concreto, tanto che ogni località dovrebbe avere un’organizzazione condotta dagli utenti sul modello dei Centres for Independent Living (UK Prime Minister’s Strategy Unit, 2005, p. 66 cit. in Morris J., 2005, p. 34).
Questa conoscenza specifica è ancor più necessaria perché in tema di vita indipendente, soprattutto quando si tratta di assistenza personale, si ha a che fare con gli aspetti più intimi (non soltanto fisici) di una persona (disabile) in merito ai quali può esserci un’estrema vulnerabilità, ed è quindi più che mai necessario che, nell’agire in questo campo, si sappia bene come muoversi. 
Inoltre si tratta di una materia per la salvaguardia della quale possono essere necessari anche consistenti esborsi finanziari. Ed è quindi più che mai necessario sapere come agire perché l’ignoranza può comportare degli enormi sprechi di risorse.
Infine, ma non meno importante, va considerato che si tratta di un modo estremamente innovativo di affrontare il tema della disabilità, e questa innovatività coesiste con un diffuso modo di vedere il settore in maniera tradizionale e radicalmente opposto all’approccio della vita indipendente. Per cui è agevole cadere nel fraintendimento di attuare come vita indipendente cose che non c’entrano assolutamente niente con questo approccio. 
Va poi considerato che ci sono consistenti motivi che inducono a ritenere che l’unica vera conoscenza di questa materia c’è soltanto da parte degli utenti della medesima. A parere di chi scrive ci sono altrettanti consistenti motivi per ritenere che non sempre è così. Ma indubbiamente è corretto dire che numerose volte è così. E comunque, almeno per ora, e salvo eccezioni, si tratta di una materia che è conosciuta veramente soltanto da alcune persone, che la vivono in prima persona. 
Questo significa però un notevolissimo cambiamento nel modo di concepire la conoscenza in tema di disabilità. Infatti è fin troppo diffusa la pratica di considerare le persone disabili come soggetti (o oggetti) di cui occuparsi. Per cui l’affermarsi di una adeguata conoscenza in materia deve superare anche l’ostacolo delle tradizioni consolidate in questa materia. Oltre al fatto che tali tradizioni hanno portato anche all’affermarsi di precisi interessi, che sono stati definiti come “disability industry”.

Art. 1: Finalità

In tale articolo viene stabilito due volte (co. 1 e 3) che la vita indipendente è un diritto. L’aver stabilito questo non è una novità visto che alla vita indipendente è attribuita questa qualifica sia dalla legge n. 104 del 1992 (così come modificata dalla legge n. 162 del 1998) che dalla Convenzione Onu sulle persone disabili. Inoltre già nella legge regionale della Toscana n. 72 del 1997 la vita indipendente era qualificata come un diritto. 
Di nuovo, per quanto riguarda la legge regionale del Molise, qui discussa, va osservato che nell’art. 1 la vita indipendente è qualificata come diritto per ben 2 volte, ed esso viene riconosciuto come “fondamentale e strategico”. Ciò è importante innanzitutto perché serve a fare chiarezza culturale in materia. Si ha poi l’ulteriore risultato di collocare in maniera precisa tale diritto nell’ambito della gerarchia dei valori costituzionali. 
Insomma sembra volersi correttamente ricondurre il diritto alla vita indipendente all’art. 2 Cost., e questo è determinante al fine della lettura delle successive disposizioni contenute in questa legge regionale e comporta anche alcune complicazioni interpretative di non poco conto. 
Nei co. 4 e 5 di questo articolo c’è anche una definizione giuridica della vita indipendente. Dopo la definizione contenuta nella Convenzione Onu sulle persone disabili, questa è la prima definizione legislativa del concetto di vita indipendente in Italia. Ciò può essere utile per stabilire meglio cosa significa questa dizione sempre più utilizzata nel campo della disabilità. 
Ad una prima lettura sembra una definizione pregevole. Salvo che non è definito in maniera totalmente esplicita il fatto che è il disabile stesso a scegliersi liberamente gli/le assistenti personali. Lo si può desumere in combinazione dall’accento posto sull’autogestione con la dizione “in forma privata”. Ma non c’è una chiarezza inequivocabile su un punto così qualificante. Non è una lacuna del tutto priva di significato, se non altro per un problema che vedremo più avanti.
In seguito, nel co. 2 dell’art. 5, viene chiarito che i destinatari “hanno facoltà di scegliere i propri assistenti”. Il chiarimento è essenziale. Tuttavia tale facoltà viene riconosciuta “nell’ambito del programma di aiuto”. Poiché non si capisce a cosa dovrebbero servire gli assistenti personali se non ad aiutare il disabile, pare si voglia richiedere una sorta di “approvazione” da parte dei servizi sociali, e qui è alto il rischio di sindacare su valori e scelte, che non sono sindacabili.
Semmai il problema, serio e delicatissimo, sarebbe quello di formare le persone disabili per prepararle alla gestione della vita indipendente . Ma su questo la legge regionale in esame tace.
Da osservare che già nell’art. 1, seppure al termine dello stesso, si stabilisce espressamente che gli assistenti personali sono formati dal disabile stesso. Si rileva insomma che viene subito riconosciuto, in forma giuridicamente vincolante, un punto essenziale per la vita indipendente.

Art. 2: Destinatari

Nel co. 1 viene stabilito che gli interventi per la vita indipendente sono destinati a persone disabili fra i 18 e i 65 anni in situazione di gravità.

La situazione di gravità

Viene stabilito che i finanziamenti per la vita indipendente sono destinati esclusivamente a chi è in “situazione di gravità”. Questo è in linea con la normativa nazionale e da alcuni punti di vista serve a semplificare la cosa. Tuttavia non viene sciolto (nemmeno nell’art. 9, come vedremo più avanti) il grosso nodo del fatto che, all’interno della “gravità”, ci sono situazioni con necessità assistenziali assai differenti.

I minorenni

Per quanto riguarda il fatto che vengono esclusi dalla vita indipendente i minorenni, va ricordato che in sintesi vita indipendente vuol dire vivere secondo le proprie scelte ed aspirazioni. Tutti i genitori, gli insegnati e gli educatori sanno bene quanto è importante educare ed abituare il bambino, e poi il ragazzo e l’adolescente, ovviamente con gradualità, ad imparare a conoscere il mondo circostante, a fare le proprie scelte, a conoscere i propri desideri e le proprie aspirazioni. Ciò è maggiormente importante per i minorenni disabili sia perché, con determinate difficoltà fisiche, psichiche, mentali e/o sensoriali, è più difficile imparare ad essere se stessi ed a fare le proprie scelte. E sia perché tutto questo è reso ancor più complicato da una serie di difficoltà frapposte dalla società così come è strutturata. 
Si osserva che negare la vita indipendente a alle persone disabili minorenni significa comprimere non poco la possibilità per questi individui di sviluppare pienamente la propria personalità. Il che lascia estremamente perplessi sotto il profilo dei principi stabiliti dagli artt. 2 e 3 Cost. Salvo precisare che, ovviamente, la vita indipendente per i minorenni va correttamente intesa, senza sconfinare in superficiali generalizzazioni, davvero fuori luogo, inopportune e pericolose.

Gli ultrasessantacinquenni

Come è stato accennato sopra questo comma vieta la vita indipendente anche per chi ha più di 65 anni. E qui sorgono perplessità sotto molteplici profili. 
In primo luogo, un disabile, che vive in maniera indipendente, quando arriva a 65 anni, in base a questa norma, deve smettere di vivere in maniera indipendente, e magari finire in istituto? Sembrerebbe che questa sia l’interpretazione corretta perché è stabilito espressamente “fino ai”. Ma, se così è, le conseguenze sociali potrebbero essere devastanti, se non altro in termini di disperazione, magari di suicidi (come avvenne negli stati Uniti d’America ai tempi della Presidenza di Ronald Regan) oppure in termini di ribellioni. Inoltre le conseguenze sarebbero devastanti anche sotto il profilo del diritto alla salute, e quindi del diritto alla vita. Infatti, per un disabile abituato a vivere in maniera indipendente, trovarsi improvvisamente in istituto o comunque in situazioni di totale dipendenza anche decisionale, implicherebbe un rapidissimo deterioramento delle condizioni fisiche, psichiche e mentali. E sicuramente vi sarebbero una morte, o uno stato vegetativo di fatto, precoci.
Se invece questa non dovesse essere l’interpretazione corretta del punto, se lo si dovesse cioè intendere nel senso che chi fa già vita indipendente continua a farla anche dopo il 65° anno, mentre essa non è consentita a chi diventa disabile dopo tale età, in primo luogo va osservato che è tutt’altro che agevole estrarre una siffatta norma dalla disposizione in questione.
Ma soprattutto, se questa fosse l’interpretazione corretta, sorgerebbe allora un altro profilo di assi dubbia legittimità rispetto sia al co. 1 che al co. 2 dell’art. 3 Cost. Infatti la conseguenza sarebbe che, ad esempio, un settantenne, diventato paraplegico per un incidente d’auto a 50 anni d’età, continuerebbe a vivere in maniera indipendente, mentre un’altra persona, egualmente paraplegica e per lo stesso motivo, ma per un incidente accaduto al 66° anno d’età, si vedrebbe negata tale possibilità. È difficile non pensare ad una diversità di trattamento riservata a situazioni analoghe, e quindi escludere una violazione del co. 1 dell’art. 3 della Cost. 
Inoltre nel co. 2 dello stesso articolo, con la dizione “non derivati da patologie strettamente connesse ai processi di invecchiamento”, si esclude dalla vita indipendente chi diventa disabile nell’invecchiare. Anche questo lascia molto perplessi. Infatti i processi di invecchiamento solo in rari casi vogliono dire perdita rapidissima di tutta la capacità di intendere e di volere. Quindi, consentire la vita indipendente a chi invecchia, vorrebbe dire permettere di continuare ad esercitare le libertà fondamentali, far vivere molto meglio, rallentare il deterioramento dello stato di salute, far vivere più a lungo e diminuire la spesa sanitaria. Resta perciò difficile da capire come l’esclusione degli anziani dalla vita indipendente sia compatibile con gli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost.
Eppoi: questa dizione serve ad interpretare il comma precedente nel senso che chi diventa disabile prima del 65° anno, ma per “processi di invecchiamento”, è escluso dalla vita indipendente? Oppure, poiché questa sarebbe un’eventualità sostanzialmente teorica, tale esclusione vale soltanto per chi ha più di 65 anni? E quindi, chi diventa disabile dopo il 65° anno, ma per cause diverse dai “processi di invecchiamento”, non è escluso dalla vita indipendente?
E chi, per disabilità grave, inizia la vita indipendente prima del 65° anno, continua anche dopo tale età? Questo secondo comma spingerebbe in tal senso, mentre il primo comma induce all’interpretazione opposta.

Le difficoltà psichiche e mentali

Familiari

Sempre nel co. 1 dell’art. 2 viene stabilito che la vita indipendente è rivolta “esclusivamente …. ai familiari dei predetti soggetti nel caso dei disabili psico-relazionari”
È alquanto misterioso il fatto che le prestazioni per la vita indipendente possano essere destinate ai familiari della persone disabili. Per quanto è dato di sapere le prestazioni per la vita indipendente possono essere necessarie ai disabili e non ai familiari. Certo ai familiari può venirne un beneficio anche notevole, ma in via indiretta, per via del fatto che il disabile ha meno necessità di assistenza da parte loro, e quindi la vita dei familiari ne risulta alleviata.
La dizione usata in questo comma, e riportata qui sopra, lascia ancor più perplessi per via dell’abitudine, troppo diffusa in Italia, da parte dei familiari di riscuotere l’indennità di accompagnamento destinata ai congiunti disabili, e di utilizzarla per finalità diverse da quelle dovute ed a vantaggio dei familiari non disabili. Per cui si rimarrebbe esterrefatti se questa dizione, utilizzata dal legislatore della Regione Molise, finisse per essere interpretata come un avvallo a questa prassi inammissibile.

Le difficoltà psichiche e mentali nello specifico

Dalla dizione riportata sopra, parrebbe di capire che nella vita indipendente possono essere incluse anche le persone con difficoltà psichiche e/o mentali. E questo pare corretto perché, con le opportune modalità, ciò è possibile (Barnes C., 2004, p. 11; Van Hauwermeiren J., 2009, pp. 5, 10-11 e 13), e quindi è un diritto anche per tali persone. Sennonché questa interpretazione pare smentita dal successivo co. 4 dello stesso art. 2. laddove si esclude dalle prestazione per la vita indipendente chi è incapace di gestirla da sé. 
Il fatto è che in realtà, stando ad esperienze di altri paesi, con gli opportuni accorgimenti, è possibile consentire anche a chi ha difficoltà psichiche o mentali di vivere in maniera indipendente. Per certi aspetti si potrebbe anche dire che per queste persone la vita indipendente è più importante che mai perché molto spesso sono le persone maggiormente emarginate ed alle quali viene consentito meno che ad altri disabili di autodeterminarsi. 
Inoltre nel comma qui in discussione non vi è neanche un accenno all’amministratore di sostegno, che invece può essere di estremo aiuto per la vita indipendente di chi ha difficoltà psichiche o mentali. 
Per tutti questi motivi il comma in questione pare in contrasto con il co. 1 dell’art. 3 Cost., e quindi anche con il co. 2 della stesso articolo.

Confusione

Parrebbe che vi sia, da parte del legislatore regionale, uno stato confusionale che impedisce di distinguere tra i destinatari dell’intervento e chi, in presenza di talune difficoltà psichiche o mentali, può trovarsi a dover gestire alcuni aspetti della vita indipendente, fra i quali, ma no sempre, il denaro, taluni profili del rapporto con gli assistenti personali ecc. È una confusione non da poco perché un conto è essere destinatari dell’intervento e ben altro conto è trovarsi nello stato di necessità di dover gestire taluni aspetti di un intervento destinato ad un’altra persona.

Ausili tecnici

Subito di seguito si capisce che la parola “autonomia” viene utilizzata nel significato comunemente utilizzato nella riabilitazione, e non in quello più propriamente giuridico e letteralmente corretto. In primo luogo si osserva che è possibile accedere al finanziamento per la vita indipendente soltanto quando la limitazione dell’autonomia personale non è superabile attraverso gli ausili tecnici. 
Ma soprattutto questa disposizione è senza dubbio positiva per vari motivi, che qui non si esaminano nel dettaglio. Tuttavia va precisato che spesso può essere assai complesso e delicato stabilire se un ausilio è idoneo a superare la limitazione funzionale del soggetto. Di sicuro, nello stabilire questo, deve essere considerato decisivo quello che pensa la persona disabile stessa.

Art. 3: La qualità della vita

Si stabilisce che la vita indipendente serve a migliorare la “qualità della vita”. Ciò è indubbiamente esatto, però, ben prima di questo, la vita indipendente è indispensabile per l’esercizio delle libertà fondamentali. E la differenza è notevole perché, in tema di libertà fondamentali, si ha a che fare con i “diritti assoluti”, mentre la “qualità della vita” di per sé non è un diritto assoluto. Vedremo più avanti che da questo fatto, eluso dall’articolo in questione, derivano conseguenze giuridiche di estremo rilievo.

Artt. 4, 5, 6 e 14: Annualità delle prestazioni

Da questi articoli della legge regionale in oggetto si evince che tutti gli anni il disabile deve presentare la domanda per le prestazioni necessarie per la vita indipendente. 
Qui ci sono due profili differenti.

Accertamento annuale delle necessità

In base a quanto previsto dalla legge regionale in esame, ogni anno il disabile deve presentare una relazione, o domanda, o progetto, che dir si voglia, ai servizi sociali per dire loro qual’è la sua situazione rispetto alle difficoltà della vita. 
Il fatto è che, quando si tratta di disabilità grave, di solito si ha a che fare con menomazioni stabili o progressive nel tempo. Insomma l’eventualità di aver meno necessità di assistenza personale rispetto all’anno precedente è riconducibile soltanto ad un miracolo. In primo luogo va osservato che le prestazioni necessarie per la vita indipendente sono destinate al soddisfacimento dei bisogni primordiali di sopravvivenza del soggetto ed alla possibilità di esercitare quei diritti che la Costituzione qualifica come inviolabili. Per cui, una volta inoltrata la domanda per la vita indipendente, accertata l’esistenza dei requisiti ed accolta la richiesta, non si vede come possa essere compatibile con la dizione “diritto” (utilizzata ben due volte nell’art. 1 di questa legge regionale) il fatto che tutti gli anni debba essere rinnovata la richiesta di detto finanziamento, il quale, stando alla lettura testuale della disposizione, negli anni successivi può essere ridotto di importo, oppure addirittura negato.
Inoltre, il fatto di dover ogni anno esporre la propria situazione ai servizi sociali, senza che ci sia un oggettivo bisogno di ciò, diventa un inutile e pesante complicazione burocratica, che, oltretutto, può essere particolarmente piena di difficoltà per chi ha una disabilità grave. In altre parole questo significa ulteriori complicazioni burocratiche per il disabile in un periodo storico in cui si sta attuando la semplificazione amministrativa per tutte le persone fisiche e giuridiche. Non c’è alcun dubbio che, in base all’art. 3 Cost., la semplificazione amministrativa deve andare a vantaggio del disabile tra i primi. Viceversa, con il fatto della domanda annuale, per loro c’è un’ulteriore complicazione amministrativa, che cozza in maniera stridente con l’art. 3 Cost.
Infine appesantire il lavoro della pubblica amministrazione con ulteriori pratiche non necessarie significa andare contro i criteri di efficacia ed efficienza dell’amministrazione pubblica imposti dall’art. 97 Cost.

Le disponibilità di bilancio

C’è poi il fatto che ciascun anno tale domanda potrebbe essere accolta, non accolta oppure accolta parzialmente, magari con una parzialità diversa da quella dell’anno precedente, in base ai fondi disponibili.
Si può allora ipotizzare che qui si tratti di uno dei cosiddetti “diritti condizionati”. Tuttavia la dottrina è molto perplessa sul fatto che sia possibile salvaguardare in modo costituzionalmente corretto i diritti fondamentali se li si subordina alle disponibilità di bilancio (Girelli F., 2011, pp. 11-12; Panzera C., 2001, pp. 954-955; Piazza S., 2010, pp. 2101-2; 7; Morris J., 2005, p. 24). Tanto che estrema cautela deve essere prestata perfino nel cosiddetto “bilanciamento” (Ruggeri A., 2011, p. 3; Girelli F., 2011, p. 11) perché è alto il rischio di sacrificare la tutela di tali diritti quando essa è impossibile senza l’impiego di risorse pubbliche.
Volendo comunque subordinare la concreta tutela dei diritti fondamentali alle esigenze di bilancio sorgono ulteriori difficoltà. 
In primo luogo, per quanto riguarda la mera questione di bilancio, e anche volendo provare ad essere apparentemente cinici (senza comunque cadere nelle preferenze di chi ha vasti interessi nel campo sanitario), va comunque osservato che la grave insufficienza (qualitativa e/o quantitativa) dell’assistenza personale per chi ha gravi disabilità provoca un deterioramento significativo delle loro condizioni di salute, e quindi un incremento della spesa sanitaria sicuramente maggiore di quanto costerebbe un’assistenza personale adeguata. Per cui, già sotto questo primo profilo, si può notare come la conoscenza della materia dovrebbe indurre ad un’estrema cautela nel porre limiti di bilancio all’assistenza personale di chi ha gravi disabilità.
Inoltre, tornando agli aspetti più meramente giuridici della questione, va rilevato che, quando viene detto che non ci sono adeguati fondi di bilancio, in realtà ciò non dipende dal fatto che i fondi mancano in maniera assoluta. Viceversa la disponibilità dei fondi di bilancio dipende dalle decisioni delle assemblee legislativa. Quindi, in definitiva, se esistono o meno i fondi sufficienti per una determinata attività della Repubblica (in questo caso per fornire determinati supporti alle persone disabili), ciò dipende non dai limiti delle risorse complessive esistenti su questo pianeta, bensì dalla maggioranza politica che ha preso questa decisione. Il fatto è che però, nel caso dei finanziamenti necessari per la vita indipendente dei disabili, la mancanza di fondi, quindi la decisione della maggioranza politica, va ad incidere sulla possibilità concreta di esercitare i diritti, che l’art. 2 Cost. qualifica come inviolabili, intendendo così sottrarli alla libera disponibilità delle maggioranze politiche.
In altre parole, fino a che non ci sarà una dittatura esplicita, qualsiasi cittadino è libero, ad es., di andare ad una manifestazione politica legale, a prescindere dalla maggioranza politica che domina in quel momento in Consiglio comunale o in Consiglio regionale o in Parlamento. Viceversa un disabile grave può andare a quella stessa manifestazione politica soltanto se la maggioranza politica, che domina in quel momento, decide di stanziare fondi adeguati che consentano a quel disabile di avere sufficiente assistenza personale (per andare anche a quella manifestazione politica).
Evidentemente in questo discorso dell’insufficienza dei fondi a disposizione c’è qualcosa di notevole, che non va bene. Non si pretende certo di affrontare qui questo problema, probabilmente non risolvibile sotto il profilo meramente giuridico, bensì si intende più semplicemente porre all’attenzione il fatto che la possibilità concreta di esercitare i diritti inviolabili non può essere subordinata alle maggioranze politiche (Belli R., 1987, 1638-9).
In altre parole è noto che le esigenze riconducibili all'art. 2 Cost. sono state definite dalla medesima come "diritti inviolabili" onde togliere al legislatore ordinario qualsivoglia potere di interventi restrittivi (Grossi P., 1974, pp. 712 ss.). Cosicché, tanto per fare un esempio, secondario solo a prima vista, ad una persona maggiorenne e normodotata soltanto nei casi previsti tassativamente dalla Costituzione può essere impedito di uscire di casa per andare a fare una passeggiata, ad una riunione, ad impostare una lettera ecc. Viceversa molte persone disabili possono svolgere queste attività solo se hanno a disposizione gli opportuni ausili tecnici e/o adeguata assistenza personale.
Però, per la stragrande maggioranza delle persone disabili, tutto ciò può essere ottenuto soltanto se una norma di legge vincola la pubblica amministrazione a fornire comunque le prestazioni menzionate poco sopra, oppure solo se il Parlamento, il Consiglio regionale, provinciale e comunale dotano di adeguati fondi determinati capitoli dei rispettivi bilanci. Ovvero le persone normodotate possono esercitare in concreto i diritti inviolabili, "salvo" i limiti espressamente previsti dalla Costituzione; al contrario molte persone disabili possono esercitare in concreto molti o tutti gli stessi diritti "inviolabili" "soltanto se" le maggioranze politiche presenti in Parlamento, o negli organismi elettivi altrimenti competenti, decidono che questo accada.
Il punto è importante perché far dipendere la possibilità di godere effettivamente di taluni diritti dall'utilità complessiva che ne viene alla collettività significa subordinare il diritto all'economia (Dworkin R., 1982, pp., 194-5.), mentre diritto vuol dire tutela delle minoranze contro la maggioranza (Dworkin R., 1982, p. 260). Con la conseguenza secondo cui i diritti non possono essere limitati per ragioni utilitaristiche o per star dietro a quel che pensa la maggioranza (Dworkin R., 1982, pp. 287-90). Ovvero, sebbene da un'angolatura un po' diversa, il welfare state deve puntare non alla governabilità a tutti i costi, bensì a renderla funzionale al benessere e alla felicità della popolazione (Olivelli P., 1988, p. 8).
Il nocciolo del problema non è certamente nuovo, ed è riconducibile alla questione se le persone disabili hanno diritto di vivere anche se questo costa molto (Degener T., 1991, p. 24.). Con il risultato preliminare di rendere doveroso il consenso con l'affermazione secondo cui non si possono subordinare i diritti (degli handicappati) alle preferenze della maggioranza (Dworkin R., 1982, pp. 287-90 e 438).

L’assolutezza del diritto

Non è qui possibile discutere in maniera approfondita come la Corte costituzionale si pronuncia in tema di tutela dei valori fondamentali. Tuttavia, per limitarsi alle persone disabili, oltre a quanto stabilito dalla Corte nella sentenza n. 215 del 1987 (Belli R., 1987), va ricordato anche che, per quanto riguarda le esigenze fondamentali di queste persone, il bilancio dev'essere adeguato ai bisogni (Corte costituzionale, sentenza n. 106 del 1992). Inoltre, spaziando su una materia parallela, non si può omettere quanto la Corte ha deciso “nella sent. 94/2009 ……. ossia che sulle strutture o pubbliche sanitarie, a differenza di quelle private che operano in regime convenzionale, grava «l’obbligo di prestare i servizi, anche oltre il tetto di spesa assegnato»” (Panzera C., 2001, p. 956).
Il fatto è che, diversamente da quando si sostiene spesso, privilegiando sempre la tutela diritti fondamentali non si pregiudica necessariamente l’irrinunciabile principio dell’equilibrio del bilancio. Questo perché la cosiddetta “insufficienza delle risorse” di per sé non sussiste in un settore specifico, e scaturisce invece dal fatto che, nelle assemblee elettive competenti, le rispettive maggioranze politiche decidono di destinare i fondi disponibili ad altri capitoli di bilancio. E allora va sottolineato che, per quanto riguarda i bilanci pubblici non si può prescindere dai vincoli stabiliti dalla Costituzione e dalla legislazione vigente (Belli R., 2001, p. 2702-3).
E’ infatti onere dei rispettivi enti adeguare i bilanci alle necessità essenziali. Nel senso che i fondi pubblici devono essere destinati prioritariamente alla tutela dei diritti che la Costituzione qualifica come "inviolabili" e all’adempimento di quei doveri che essa definisce “inderogabili”, e solo dopo al resto. Inoltre il livello e la qualità della pressione fiscale devono essere innanzitutto variabili dipendenti di detta tutela (idem, p. 2703).
In altre parole è onere degli enti pubblici far sì che i rispettivi bilanci siano predisposti in modo da realizzare l’equilibrio dei medesimi e al tempo stesso provvedere al raggiungimento degli altri obiettivi che la Costituzione o la legislazione vigente considerano irrinunciabili (idem, p. 2703). 
Inoltre va rilevato che nella Convenzione Onu sulle persone disabili (lett. e) del Preambolo e art. 1) è stato recepito il cosiddetto “modello sociale della disabilità”. In sintesi: la disabilità non è più riconducibile al singolo individuo, bensì dipende dalle barriere che vengono frapposte dalla natura, ma anche dall’essere umano, a chi ha determinate minorazioni.
Di conseguenza, poiché l’Italia ha ratificato la Convenzione, anche sotto il profilo giuridico si può dire che le persone con determinate difficoltà sono disabili per via dell’incapacità della società di tener conto dei loro bisogni individuali e collettivi nell’ambito della normale vita economica e culturale (Barnes C., 2004, p. 5). E quindi l’attenzione si sposta dall’incapacità o limitazione individuale ai problemi causati dagli ambienti disabilitanti, dalle barriere e dalle culture (Barnes C., 20.04, p. 6).
Ci sarebbe molto da scrivere, esulando in parte dai profili giuridici della questione. In estrema sintesi, e limitandosi all’aspetto giuridico, si può comunque sostenere che, in tema di disabilità, il tradizionale approccio solidaristico (che pure l’art. 2 Cost. qualifica come “inderogabile”) è ora notevolmente rafforzato dal principio risarcitorio, per non dire che dovrebbe essere sostituito in larga misura da questo.
Nel senso che si riconosce giuridicamente come la disabilità dipenda in larga misura dai comportamenti degli individui che compongono la collettività. Da questo deriva però che, nella misura in cui la disabilità è causata dai comportamenti degli individui, è del tutto fuori luogo limitarsi alla solidarietà, o comunque a fornire degli indennizzi, bensì soltanto un integrale risarcimento del danno può essere adeguato alla natura giuridica del fenomeno.
E quindi, in tema di qualificazione dei diritti delle persone disabili, anche sotto questo profilo ci si indirizza verso il contenuto assolutistico della pretesa, che fu già rilevato da altra prospettiva (Belli R., 1987). E qui ci sono tre aspetti da esaminare, seppure in sintesi.
Il primo riguarda il fatto che la differente prospettiva appena menzionata si riferisce alla giurisprudenza della Corte costituzionale secondo la quale l’inserimento scolastico dei disabili è un diritto assoluto della personalità. Ebbene questa giurisprudenza è ormai consolidata, basti pensare alla sentenza della Corte costituzionale n. 215 cit., confermata dalla Corte con la sentenza n 80 del 22 febbraio 2010, e la dottrina è vasta nel sottolineare l’assolutezza di tale diritto (fra molti: Girelli F., 2011, pp. 4-71; Osti A., 2001, pp. 4-5). Il che fa sorgere un problema di enormi proporzioni per quanto riguarda la disabilità.
Volendo anche provare a leggere in maniera meramente utilitaristica, e quindi restrittiva (in realtà la visione della Corte spazia su ben altri orizzonti costituzionali), i motivi per cui l’integrazione scolastica dei disabili è un diritto assoluto, si potrebbe pure sostenere che il fine ultimissimo della natura assolutistica di tale diritto è quello di far sì che i disabili abbiano pari opportunità di realizzarsi nella vita da adulti. Il che è, o sarebbe, senza dubbio di estremo rilievo. Sennonché moltissimi disabili gravi non possono raggiungere questo obiettivo senza un’adeguata assistenza personale autodeterminata dopo il periodo scolastico.
E allora pare incongruo che si tratti di diritto assoluto nel supportare il disabile nell’età scolare, e poi tale supporto venga sostanzialmente derubricato a “interesse diffuso” appena superata detta età. Non pare insomma sostenibile che gli stessi diritti dei disabili siano fondamentali, e quindi assoluti, soltanto nella prima parte della vita.
Il secondo aspetto riguarda il fatto che questa derubricazione a interessi diffusi si risolve nella constatazione secondo cui molti disabili, dopo aver beneficiato di un’integrazione scolastica di prim’ordine (almeno teoricamente), vengono improvvisamente abbandonati ad una sopravvivenza poco più che vegetale. E questo, oltre a produrre enormi drammi umani sicuramente rilevanti sotto il profilo costituzionale, si risolve nel fatto che, sotto l’aspetto meramente finanziario, le risorse impegnate per garantire l’assolutezza del diritto all’integrazione scolastica finiscono per andare “sprecate”. “Spreco” evitabile soltanto riconoscendo che l’assolutezza dei diritti fondamentali dei disabili non può limitarsi all’età scolare.
Il terzo aspetto a favore dell’assolutezza del diritto a talune prestazioni in età adulta riguarda il fatto che, una volta riconosciuto giuridicamente il “modello sociale” della disabilità, ne consegue che ogni persona finisce per essere responsabile delle cause disabilitanti della società, responsabilità che può essere sia diretta (da parte di chi agisce attivamente per la creazione di tali cause) e sia indiretta (da parte di chi non fa nulla affinché tali cause cessino). Fermo restando, ovviamente, che la responsabilità per ciò che causa la disabilità va tenuta ben distinta dalla responsabilità per ciò che causa la menomazione. Ma su questo punto dobbiamo fermarci qui, altrimenti andremmo troppo lontano dal tema specifico di questo scritto.
Salvo tornare anche da qui alla constatazione in base alla quale, nella misura in cui si tratta di responsabilità da parte di tutti i componenti della collettività, si configura per le persone disabili una situazione giuridica che, pure sotto questo profilo, ha numerosi punti in comune con i diritti assoluti della personalità.
Nella direzione dell’assolutezza del diritto anche dopo l’età scolare si veda la Corte di cassazione civile, sezione 3, sentenza n. 18378 del 2010.

La riduzione delle prestazioni

Tornando alla legge regionale del Molise qui in esame, si può allora ipotizzare che, nel caso di riduzione o revoca della prestazione negli anni successivi al primo, ciò sia legittimo soltanto se vi è adeguata motivazione. Laddove, ovviamente, si deve intendere che la motivazione può essere “adeguata” soltanto se è conforme ai precetti giuridici.
E allora, oltre a quanto appena esaminato a proposito di inviolabilità dei diritti e di modello sociale della disabilità, va accennato pure al fatto che, anche volendo attribuire alle esigenze di autodeterminazione delle persone disabili un non condivisibile contenuto “programmatico”, non si può prescindere dal fatto che il co. 2 dell’at. 3 Cost. contiene comunque l’obbligo di attuare un certo programma, obbligo rispetto a quale non è certo consentito venir meno, e quindi non può essere ammesso di tornare indietro (Belli R., 1992, pp. 2409-10).
Tant’è vero che, se, fra l’altro, si fa riferimento alla sentenza della Corte costituzionale del 18 marzo 1992 n. 106, si dovrebbe dire che, per le materie tutelate dalla Costituzione, nel momento in cui le relative provvidenze siano diventate "elemento intrinseco della complessa disciplina dell'invalidità civile", esse non possono più essere eliminate completamente. E i bilanci di detti enti sono tenuti a prevedere sempre i necessari stanziamenti a tal fine. O, per essere più precisi, a proposito del diritto allo studio del minore disabile, la Corte Costituzionale, con la sentenza n 80 del 2010 cit., ha ribadito che “quanto originariamente concesso, pur nella discrezionalità politica, non può essere tolto se va ad incidere sul nucleo minimo del diritto costituzionale garantito” (Panzera C., 2001, p. 956).
Tutto questo per dire che, da un punto di vista giuridico, sono molto stretti i margini per ridurre in maniera legittima i finanziamenti per la vita indipendente della singola persona disabile.
C’è tuttavia il fatto che, nella realtà vera della vita, quasi sempre il disabile grave si trova in grandi difficoltà sia di mobilità che di denaro, per cui non ha molte possibilità concrete di ricorrere al giudice qualora gli venga negato, del tutto o parzialmente, il rinnovo di tale prestazione senza adeguata motivazione. Oltre al fatto che i tempi di questi ricorsi sono incompatibilmente lunghi rispetto alle esigenze di chi è senza risorse e non può nemmeno bere un bicchier d’acqua senza l’aiuto di altri. 
Per cui resta un interrogativo come questo meccanismo dell’annualità della prestazione sia conciliabile con gli artt. 2 e 3 Cost.

Art. 5: Organizzazione del servizio

Nel co. 1 dell’art. 5 c’è scritto che le modalità di svolgimento del servizio di assistenza personale vengono “stabilite dalla competenze Direzione della Giunta regionale”. 
Questo punto dovrebbe essere inteso nel senso che detta “Direzione” può stabilire soltanto della regole estremamente generiche. Ciò per due motivi.
Innanzitutto perché nei co. 4 e 5 dell’art. 1 si dispone di “autodeterminazione”, “controllo del proprio quotidiano” e “assistenza personale autogestita”. E anche in questo stesso co. 1 dell’art. 5 si ribadisce “gestiti dai destinatari”. Quindi, se la Giunta regionale stabilisse delle regole dettagliate, ne conseguirebbe che detti principi fondamentali ne risulterebbero vanificati.
Inoltre in tutti i paesi del mondo, laddove la vita indipendente si è affermata, ciò è stato possibile perché il modo di articolare le prestazioni viene stabilito da persone con adeguata competenza in materia. Il che è ancor più rilevante se si considera che in materia è essenziale una conoscenza assai dettagliata, mentre sono pochissimi quelli che ce l’hanno. Tant’è vero che si è visto in precedenza il ruolo svolto dai CILs in tutti i paesi dove la vita indipendente si è affermata.
Viene perciò da rilevare che nella legge regionale qui in esame non vi è nessun elemento che possa far risalire ad una competenza specifica della “Direzione” menzionata. Sembrerebbe quasi che nella legge regionale qui in esame si voglia intendere che la superiorità gerarchica possa includere l’elemento della competenza specifica, ma, posto in termini così generici, il punto è estremamente discutibile. In primo luogo sarebbe come attribuire ad un gruppo di dirigenti di sesso maschile una grande competenza in tema di emancipazione femminile. In secondo luogo, poiché appunto il tema della vita indipendente è ancora largamente sconosciuto (Morris J., 2005, p. 37), è quindi più che mai necessario ricorrere a chi ha competenze specifiche.

Art. 6: Valutazione dei progetti

La codecisione

Nel co. 2 dell’art. 6 viene stabilito che “Il disabile ….. entra far parte della stessa equipe multidisciplinare e partecipa alle valutazioni”. 
Qui vi è un elemento innovativo, e cioè il fatto che il disabile non è più esterno all’organismo che decide la sua vita (indipendente), bensì entra a farne parte. Da questo punto di vista è un cambiamento di prospettiva non secondario, ed è ancor più significativo che venga stabilito in un atto di natura legislativa. 
Anche se poteva essere opportuno preveder che il disabile, nel partecipare a tale equipe, possa farsi assistere da una persona di propria fiducia. Questo al fine di assicurare pari opportunità anche a quelle persone disabili che hanno meno capacità di far valere le proprie esigenze per via di una vita vissuta nell’emarginazione o a causa di difficoltà psichiche o mentali. 
Tuttavia, e lo rilevai già molti anni fa nella mia tesi di laurea, il fatto è che una persona normodotata decide da se stessa, o con il proprio partner, ad es. a che ora alzarsi la mattina, a che ora coricarsi la sera, se uscire a fare una passeggiata in un giorno festivo, ecc. E, se venisse negata questa possibilità di decidere in autonomia, vi sarebbe una violazione dei diritti fondamentali dell’individuo. 
Il fatto è che una persona con gravi disabilità può alzarsi la mattina soltanto all’ora in cui è possibile avere un’adeguata assistenza personale. Lo stesso accade per coricarsi la sera. Parimenti una persona con disabilità può fare una passeggiata la domenica soltanto se ha un’assistenza personale sufficiente ed idonea allo scopo. 
Va allora osservato che l’equipe multidisciplinare menzionata qui sopra si trova a decidere quanto finanziamento erogare al singolo disabile, che viene a farne parte. Dall’entità di tale finanziamento dipende però il fatto se il disabile può o meno avere l’assistenza personale la mattina ad una determinata ora, la sera ad un’altra determinata ora, la domenica pomeriggio ecc. In altre parole il disabile deve concordare con l’equipe multidisciplinare le modalità d’esercizio delle proprie libertà fondamentali. Mentre una persona normodotata lo decide in autonomia. Il contrasto con il co. 1 dell’art. 3 Cost., e quindi anche con il co. 2 dell’art. 2 Cost., è evidente e stridente.
Si potrebbe agevolmente obbiettare che la necessità di assistenza personale pone il disabile in una situazione oggettivamente diversa da chi è normodotato. Sennonché in vari paesi esistono dimostrazioni del fatto che è possibile organizzare le erogazioni di questa prestazione in modo che il disabile possa prendere tali decisioni fondamentali in totale autodeterminazione.
Inoltre è vasta la dottrina giuridica (fra molti: Arnardóttir Oddný Mjöll, Quinn Gerard, 2009, passim) che chiarisce come, al giorno d’oggi, anche per le persone cd. normodotate sia pressoché impossibile esercitare le libertà fondamentali senza l’intervento della finanza pubblica (basti pensare a trasporti pubblici, ai mezzi cd. d’informazione ecc.).
Perciò il fatto che il disabile debba decidere la propria vita insieme all’equipe multidisciplinare induce a ritenere che questa norma di legge regionale violi ancora una volta l’art. 3 della Cost., insomma discrimini il disabile, laddove rinvia certe decisioni personalissime ad una equipe della quale il disabile è soltanto una frazione.

Le indicazioni

Nella stessa direzione sembra andare il co. 4 lett. b) di questo art. 6 laddove si stabilisce che l’equipe multidisciplinare fornisce “indicazioni quantitative e temporali relative alle prestazioni richieste”. Il fatto è che, qui lo si ribadisce, si ha a che fare con le libertà più intime ed inviolabili dell’individuo: perciò rimane l’interrogativo di come queste indicazioni sia compatibile con gli artt. 2 e 3 Cost. Questo sempre per il fatto che, a parte che per eventuali esigenze di salute, nessuna persona libera accetterebbe indicazioni, ad es., su a che ora andare a letto a sera, su se fare una passeggiata o meno, sul fatto se e come intrattenersi o meno con il proprio partner ecc.

Art. 7: IL finanziamento

Altre prestazioni

Al co. 2 si stabilisce che il finanziamento per la vita indipendente è compatibile con altre prestazioni e con altre indennità. Il punto è importante per due motivi fondamentali. 
In primo luogo perché i finanziamenti per la vita indipendente possono essere, e di regola lo sono, ampiamente insufficienti rispetto alle necessità. Per cui, a seguito di questa disposizione, il disabile può integrare l’insufficienza di detti finanziamenti con altre prestazioni. Salvo sottolineare che questo significa fare la vita indipendente soltanto in parte.
In secondo luogo perché organizzare e gestire tutta la propria assistenza personale è così impegnativo che taluni disabili possono farcela soltanto parzialmente. In tali casi è essenziale poter contare su altri supporti.

Adeguamento al costo della vita

Nel co. 4 di quest’articolo è stabilito che la Giunta regionale può adeguare gli importi massimi dei finanziamenti per la vita indipendente all’indice ISTAT del costo della vita. 
È sicuramente positivo che sia previsto questo adeguamento, per di più tutto intero all’indice ISTAT. In tal modo, almeno in parte, è possibile che i finanziamenti per la vita indipendente conservino il loro valore reale nel tempo. E sono rare le norme così esplicite su un punto tanto qualificante,
Tuttavia questo non è stabilito come un dovere per la Giunta regionale, e tanto meno come un diritto per il disabile, bensì come una facoltà per la Giunta. Quindi non è affatto detto che tale adeguamento venga fatto, con la conseguenza che per il disabile non c’è nessuna garanzia. E, quando si tratta di prestazioni essenziali per la sopravvivenza, l’assenza di garanzia è determinante.

Artt. 8 e 9: Livelli di intensità assistenziale

Più livelli

La legge regionale in esame prevede tre livelli di bisogno assistenziale: alto, medio e basso. In tal senso questa legge regionale parrebbe superare il limite esistente sia nella legge 11 febbraio 1980, n. 18, che nel co. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104. Infatti la legge n. 18 cit. stabilisce un solo livello per l’indennità di accompagnamento e la legge n. 104 cit. prevede un solo livello di gravità. Ciò è sicuramente un limite di queste due leggi (limite che forse rientra nella discrezionalità del legislatore) perché, nella realtà concreta della vita, le persone che hanno consistenti necessità assistenziali, di regola hanno bisogni di entità assai diversa tra loro. Il fatto che la legge regionale in oggetto, almeno a prima vista, abbia superato questo limite la renderebbe più aderente alla realtà rispetto a quanto stabilito dalle due precedenti leggi nazionali.

Non c’è la totale non autosufficienza

Inoltre nella legge regionale in oggetto, a proposito dei livelli di bisogno assistenziale, si fa riferimento a “persone pluriminorate o non autosufficienti”. Pare insomma rigettato l’intento che talvolta emerge in taluni ambienti governativi e parlamentari di restringere determinate prestazioni soltanto a chi è incapace a fare qualsiasi cosa senza l’aiuto di altri.
È significativo che questo orientamento sia stato rigettato innanzitutto perché nella realtà concreta, specialmente con l’elettronica attuale, sono quasi inesistenti le persone incapaci di fare qualsiasi cosa. Per cui, se fossero stati accolti certi intenti, quasi tutti i disabili gravi, per non dire tutti, sarebbero stati esclusi dalle prestazioni per la vita indipendente. 
L’altro motivo per cui è significativo che questo orientamento sia stato rigettato è dovuto al fatto che in realtà esistono moltissime persone con handicap grave, che hanno consistente capacità residue, ma che non possono sopravvivere senza l’aiuto di altre persone per questioni essenziali della vita. Ad esempio un disabile grave può essere capacissimo insegnare all’università (basti pensare a Stephen Hawking), ma può avere notevoli necessità assistenziali per sopravvivere, ad es. per andare in bagno, bere un bicchier d’acqua, mangiare ecc.

Il finanziamento massimo

Prima di addentrarci nei vari livelli assistenziali vanno anche rilevate delle perplessità a proposito dell’importo massimo del primo di tali livelli assistenziali. 
Detto importo è di 18.000 euro all’anno. Il fatto è che con 1.500 euro al mese non è sicuramente possibile, rimanendo nella legalità, coprire in maniera significativa le necessità assistenziali di chi deve essere aiutato per tutto l’arco della giornata, e spesso anche durante la notte.
Basti pensare che, nel contratto di lavoro per le colf del 2007, gli assistenti personali (formati) sono inquadrati del livello D super con una retribuzione oraria di € 7,10. Se a questo si aggiungono: adeguamento all’inflazione dal 2007, scatti di anzianità, supplementi per lavoro festivo, contributi Inps, ferie, festività, tredicesima e tfr, è agevole arrivare al costo lordo, per il disabile, di € 13 all’ora. Moltiplicando questo per 12 ore al giorno per 30 giorni al mese vengono € 4.680 al mese. A questo va aggiunto il minimo contrattuale di € 1.207,50 per l’assistenza notturna, che, se aumentato di tutti gli istituti accessori appena elencati, raggiunge sicuramente gli € 2.000 mensili.
Dunque, per un disabile gravissimo, l’assistenza personale necessaria 24 ore su 24 non può costare meno di € 6.700 al mese.
A questo vanno aggiunti altre due considerazioni:
- la prima è che a detto importo si arriva contando sull’”assistenza notturna” dalle ore 20.00 alle ore 8.00, così come prevista dal contratto collettivo per le colf. È però realistico ritenere che un’”assistenza notturna” così prolungata sia idonea a garantire la vita indipendente soltanto di pochissime persone disabili. In altre parole è realistico ritenere che la stragrande maggioranza delle persone disabili desiderino, come tutti, rimanere attive fino a ben oltre le ore 20.00 e/o alzarsi prima delle ore 8.00. Ciò vuol però dire la necessità di un’”assistenza diurna” per un orario ben più lungo di quello dalle ore 8.00 alle ore 20.00 desumibile dal contratto colf, e quindi un incremento significativo dei costi rispetto all’ipotesi formulata qui sopra;
- la seconda considerazione è che, quando una persona ha una disabilità gravissima, un conto è aiutarla a fare una vita ritirata in casa, mentre ben altro impegno e fatica sono necessari per aiutare quella persona a vivere una vita pienamente attiva. A tal fine va rilevato che può non essere affatto agevole trovare assistenti personali adeguati retribuendoli secondo i minimi contrattuali previsti dal contratto colf.
È insomma realistico ritenere che una persona con una gravissima disabilità non possa riuscire a vivere in maniera pienamente autodeterminata senza disporre di almeno € 8.000 al mese per retribuire i propri assistenti personali. E si tratta comunque di una cifra stretta, se non altro perché vanno aggiunti gli oneri previsti giustamente dalla lett. a) del co. 1 dell’art. 11 della legge regionale in esame. Di conseguenza il tetto massimo mensile di € 1.500 previsto dalla legge regionale in esame è ben lungi dal poter garantire la vita indipendente a chi ha disabilità gravissime e, di per sé, è tale da poter garantire una mera sopravvivenza, ma soltanto in condizioni estremamente difficili.

I requisiti per accedere ad ogni livello

Sempre prima di addentrarci in qualche dettaglio, viene da chiedersi se i tre elementi (menomazione, supporto familiare e supporto sociale), presi in considerazione per ciascun livello dalla legge regionale in esame, devono coesistere o meno per l’attribuzione di un determinato livello assistenziale. Anche su questo la legge regionale non pare per niente chiara. 
Evidentemente l’elemento n. 1 (la menomazione) dev’esserci sempre, altrimenti anche i non disabili potrebbero chiedere quel finanziamento. Parrebbe inoltre che la disposizione in questione si debba intendere nel senso che, per ogni livello, devono coesistere l’elemento n. 1) e almeno uno dei due elementi tra il n. 2) ed il n. 3), oppure ambedue gli elementi n. 2) e n. 3) a discrezione dei servizi sociali. Ma questa è una considerazione di chi scrive, niente affatto espressa con chiarezza nella legge in esame. E questo (e cioè il potere lasciato ai servizi sociali di decidere se gli elementi n. 2) e n. 3) devono esserci tutti e due per poter accedere a tale finanziamento) può essere considerato un limite non indifferente, perché la discrezionalità concessa ai servizi sociali su questo punto è davvero eccessiva.
In ogni caso, a parere di chi scrive, la parola “concorrenti” presente nel 2° rigo del co. 1 dell’art. 9 non può essere intesa necessariamente nel senso che, oltre all’elemento n. 1), devono coesistere anche ambedue gli elementi n. 2) e n. 3). Infatti, se così non fosse, cioè se tutti e tre gli elementi dovessero coesistere, ne conseguirebbe che un disabile gravissimo potrebbe accedere al “Livello alto” del finanziamento soltanto se privo di familiari e di ogni altra rete di supporto esterno. Ma, se si è veramente consapevoli idi cosa significa avere una disabilità gravissima, è agevole comprendere che, in mancanza di ogni altro supporto, è impossibile sopravvivere con € 1.500 mensili per l’assistenza personale.
Poiché manca ogni indicazione specifica in proposito, parrebbe che un disabile, nella stessa identica condizione psico-fisica-mentale.sensoriale, possa essere inserito in ciascuno dei tre livelli, a seconda dell’aiuto che può ricevere dai familiari o da altre reti di sostegno esterne. Questo suscita molte perplessità sotto il profilo dell’eguale trattamento. Infatti, fra le persone pluriminorate, o fra quelle non autosufficienti, al loro interno ci sono notevoli differenze di capacità, e quindi consistenti diversità nei bisogni di assistenza personale.

L’importo dei livelli

Per ogni livello viene stabilito che l’importo annuale “massimo” del progetto è rispettivamente 18.000, 12.000 e 6.000 euro. L’uso della parola “massimo” vuol dire che per le persone, che vengono assegnate al “livello basso”, l’importo del finanziamento mensile per la vita indipendente può variare da qualche centesimo di euro a € 500. Per le persone, che vengono assegnate a livello medio, l’importo del finanziamento può variare da 501 a 1.000 euro al mese. E così, per le persone, che vengono assegnate al livello alto, l’importo del finanziamento può variare da 1001 a 1500 euro al mese. 
Inoltre, se non verrà diversamente specificato nelle linee guida, all’interno di ogni livello può essere data una specifica valutazione alla menomazione del singolo disabile. Questo sia per via di quanto viene stabilito con la parola “massimo” nel co. 1 dell’art. 9 della legge regionale in esame e sia perché, pure all’interno della definizione n. 1) di cui al comma in esame, non esistono due persone con menomazione identica. Ciò vuol dire che, all’interno di un determinato livello, ad una data menomazione può essere attribuita una posizione prossima al minimo previsto per quel livello, mentre ad un’altra menomazione può essere attribuita una posizione prossima al massimo previsto per quel livello. 
Va poi osservato che la dizione del n. 1) è uguale per tutti i livelli. Per cui può accadere che due disabili, con difficoltà psico-fisiche-mentali-sensoriali analoghe, vengano messi in due livelli diversi (per motivi sociali), ed in definitiva può accadere che uno di loro prenda € 1.500 euro al mese e l’altro € 100 al mese. Non si capisce come questo meccanismo si compatibile con quanto stabilito dall’art. 3 Cost. 
In sostanza, in base al meccanismo stabilito dall’art. 9 della legge regionale del Molise in esame, il livello di intensità assistenziale e il finanziamento assegnato per la vita indipendente del singolo disabile dipenderanno in larghissima misura da quanto aiuto il disabile può ricevere dalla famiglia, dai parenti e dalla “rete sociale esterna”. Ovvero, tanto più saranno questi aiuti e tanto più basso sarà il finanziamento assegnato a quel disabile. 
Molto in apparenza si può dire che ciò è legittimo perché rientra nella discrezionalità del legislatore.

Aggravare la disabilità

In realtà questo vuol dire che continueranno a pesare sulla famiglia i disabili che sono sempre stati costretti a farlo. E quindi ciò vuole anche dire che l’intera famiglia, e non solo il soggetto stesso, continuerà ad essere disabile. Inoltre ciò implicherà più isolamento per il disabile: il discorso sarebbe complesso, ma si può accennare che l’amicizia non può essere strettamente connessa con la necessità di dover prestare o ricevere assistenza.
È insomma corretto dire che l'essere costretti a contare su amici non pagati o su parenti, anche se fa risparmiare sui fondi pubblici, ha costi sociali altrettanto reali (Zukas H., 1987, p. 1).
È poi vero che, quando un familiare, un parente, un amico, un conoscente, un volontario aiutano un disabile adempiono anche al dovere di solidarietà, che l’art. 2 della Cost. qualifica come “inderogabile”. E quindi, una volta che si sono impegnate in tal senso, dette persone non potrebbero sottrarsi a loro piacimento a tale dovere. Tuttavia a questo dovere non corrisponde un analogo e simmetrico diritto per il disabile. 
Quindi il disabile non può pretendere giuridicamente una determinata prestazione. Inoltre il disabile può sì chiedere determinati aiuti, ma deve tener conto di tutti gli impegni e di tutte le necessità che l’altra persona (il familiare, l’amico, ecc.) ha. Di conseguenza può aspettarsi che le proprie esigenze fondamentali vengano soddisfatte soltanto in subordine a tali impegni. 
Per di più i familiari, i parenti, gli amici ecc. hanno un legame affettivo e di vicinanza particolare con il disabile. Questo rende inevitabile che, nell’aiutarlo, finiscano per condizionarlo, volontariamente o meno. Finiscano insomma per pregiudicare il libero sviluppo della personalità del soggetto disabile. Non è un caso che l’allontanamento dei figli dai genitori sia un istinto naturale nel mondo animale. Tanto per fare un esempio: un bambino fa il bagno un po’ o soprattutto come vuole la mamma. Viceversa un adulto lava il proprio corpo totalmente secondo i propri desideri. Un disabile, che viene costretto a continuare a farsi aiutare dalla madre, sarà altamente improbabile che possa arrivare a far sì che il proprio corpo venga lavato esclusivamente in base alle proprie scelte e desideri. Mentre un rapporto ben più distaccato è possibile instaurarlo con l’assistente personale, che lavora in conformità ai parametri della vita indipendente. 
Parimenti può essere particolarmente imbarazzante mostrare o fare gesti particolarmente intimi di fronte ad una familiare od ad un amico, mentre può esserci un distacco maggiore nei confronti di un’assistente personale. Per tutti questi motivi il fatto che nella legge regionale in esame il finanziamento per la vita indipendente sia inversamente proporzionale alla quantità di aiuto proveniente dalla rete familiare e sociale in realtà fa sì che venga aggravata la disabilità del singolo soggetto, contrastando così, fra l’altro, in maniera stridente con l’obbiettivo che la Convenzione Onu sui disabili si è voluta porre nel recepire “il modello sociale della disabilità” a cui si è già accennato.

Il reddito

Nel co. 2 dell’art. 9 della legge regionale in esame viene stabilito che “in caso di parità nella graduatoria costituirà criterio preferenziale il minor reddito”. Innanzitutto si evince che verrà formata una graduatoria, e soltanto chi raggiungerà una determinata posizione potrà ricevere i finanziamenti per l’assistenza personale per la vita indipendente. 
È vero che le graduatorie ci sono, ad esempio, anche per l’edilizia residenziale pubblica, per determinate ammissioni all’università ecc. Ma, in analogia solo parziale con la legge regionale qui in esame, va rilevato che le graduatorie, almeno per ora, non ci sono, sempre ad esempio, per l’ammissione in ospedale.
Il fatto è che, per chi ha una disabilità grave, senza assistenza personale può essere impossibile mangiare, bere, andare a letto, andare in bagno ecc. Sorgono perciò notevoli perplessità a leggere che alle persone disabili gravi o gravissime venga consentito di espletare queste funzioni vitali soltanto se raggiungono una certa posizione in graduatoria. 
In secondo luogo si osserva che viene preso in considerazione il reddito, sebbene solo in via residuale, in caso di parità. Inoltre si fa riferimento al reddito e non all’Isee o al patrimonio. Sembrerebbe insomma che anche qui trovi una conferma la tendenza ad abbandonare la presa in considerazione del patrimonio del disabile per quanto riguarda l’assistenza ad esso destinato, tendenza già ravvisata nel fatto di chiedere esclusivamente il reddito del solo assistito, come previsto dall’art. 3, co. 2-ter del Decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109 (comma aggiunto dall'art. 3, co. 4, D.Lgs. 3 maggio 2000, n. 130) e nell’escludere l’handicap grave dall’Isee, come stabilito nel co. 3 dell’art. 47 della legge regionale to. 24 febbraio 2005, n. 41 (così sostituito dall’art. 117 della legge regionale to. 29 dicembre 2010, n. 65). 
Rimane però da chiedersi se su questo punto il legislatore regionale del Molise vuol far riferimento al reddito del singolo disabile o al reddito familiare. È vero che il Decreto legislativo n. 109 cit. stabilisce di tener conto del reddito del singolo disabile, però ciò riguarda le prestazioni da effettuare a domicilio del disabile, Viceversa l’assistenza personale per la vita indipendente si esplica anche al di fuori del domicilio, per cui rimane da chiedersi se il legislatore del Molise abbia voluto richiamarsi a tale legge, modificandola nel senso di non prevedere soltanto per il domicilio. O se invece abbia voluto innovare rispetto a tale legge e voglia includervi anche il reddito familiare. Insomma è un punto di qualche rilievo sul quale questa legge regionale non è per niente chiara.

Art. 11: Le spese ammissibili

Sul punto delle spese ammissibili per la rendicontazione nella legge regionale in esame ci sono un paio di novità di rilievo rispetto alle disposizioni di carattere amministrativo esistenti in altre regioni italiane. 
In primo luogo viene stabilito che con il denaro ricevuto per la assistenza personale per la vita indipendente si possono coprire le “spese vive … di vitto ed alloggio” per gli assistenti personali. Questo è molto importante perché, se deve farsi aiutare per andare via dalla propria abitazione per uno o più giorni, magari per vacanze, convegni, ecc, il disabile deve sostenere le spese di viaggio, vitto ed alloggio anche per l’assistente personale. E può trattarsi di spese anche notevoli, che, se non coperte dall’ente pubblico, possono diventare estremamente pesanti per il disabile. In Scandinavia la copertura di queste spese viene riconosciuta normalmente, ma in Italia, per quanto è dato di sapere, è la prima volta.
Ma in questo articolo della legge regionale in esame c’è anche un’altra novità di rilievo. Tra le parole, “spese vive” e le parole “di vitto e alloggio” c’è la parola “anche” (la sottolineatura è mia). Ciò vuol dire che, fra le “spese vive” rimborsabili possono essere incluse pure spese diverse dal vitto e alloggio. Anche questa è una novità assoluta in Italia. Ed è molto importante per realizzare l’effettiva eguaglianza tra disabili e normodotati in termini economici. Ad esempio in Scandinavi vengono riconosciute le spese per i guanti, i saponi ed altre cose che possono essere necessarie all’assistente personale. Del resto in tutti i lavori decenti il materiale necessario viene fornito dal datore di lavoro. E per il disabile dover provveder anche a queste spese può essere un peso, che i normodotati non hanno.
Tuttavia, se consideriamo quanto scritto sopra a proposito dei tetti di finanziamento massimo previsti dal co. 1 dell’art. 9 della legge regionale in esame, ci rendiamo agevolmente conto che quanto abbiamo appena visto a proposito delle “spese ammissibili” in realtà si risolve in una mera enunciazione di principio, seppure importante.

Art. 12: La formazione degli operatori sociali e dell’equipe multidisciplinare

In primo luogo sembra di capire che questa formazione non riguarda gli assistenti personali. Lo si deduce sia dalla dizione letterale in sé del testo dell’articolo, e sia dal fatto, già visto in precedenza, che al termine dell’art. 1 si stabilisce espressamente che gli assistenti personali sono formati dal disabile stesso. È un punto fermo che va rilevato anche da questa prospettiva, perché, se così non fosse, si sarebbe trattato di una via attraverso cui sarebbe potuto passare facilmente lo svuotamento del contenuto della vita indipendente. 
In realtà la formazione degli operatori sociali e dell’equipe multidisciplinare sulla vita indipendente è importante, sia perché poi sono loro a valutare le richieste di finanziamento e per tutta un’altra serie di motivi, che qui non si esaminano perché esulano dai profili giuridici della materia. È comunque da osservare che pure questo punto della legge regionale in esame sulla formazione degli operatori sociali è innovativo in Italia. 
Va tuttavia rilevato che questa formazione coinvolge una serie di aspetti articolati ed estremamente delicati, per cui diventa decisivo sapere chi svolgerà tale formazione e l’aggiornamento. Ma su un punto così essenziale la legge regionale in esame tace. Ed è un silenzio che può avere conseguenze devastanti, se non altro perché anche questa può essere un’altra via attraverso la quale può passare lo svuotamento della vita indipendente.
Il fatto è che la vita indipendente richiede un cambiamento culturale tale da arrivare ad una realtà in cui i professionisti dell’assistenza lavorino per favorire il sostegno auto diretto (Morris J., 2005, p. 4) ed è perciò necessario un significativo cambiamento per abbandonare i servizi controllati e gestiti dai professionisti e da non disabili ed arrivare ad iniziative condotte dagli utenti (Barnes C., 2004, p. 12). Questo implica l’esigenza di agire affinché in ogni località ci sia un’organizzazione controllata dagli utenti sul modello delle “Agenzie per la Vita Indipendente” (Morris J., 2005, p. 4)
Ad integrazione di quanto appena visto, ed esaminando la questione da un’altra prospettiva, si può osservare che ormai da molti anni sono in corso tentativi, volontari o meno, di far passare per vita indipendente provvedimenti che non hanno nulla a che vedere con l’autodeterminazione delle persone disabili. È stato autorevolmente scritto che, a causa della crescente politicizzazione della disabilità, la frase “vita indipendente” è sempre più presente nei documenti dei professionisti dei servizi sociali e sanitari (Barnes C., 2004, p. 9), ma in maniera tale che ha poco in comune con i principi e le pratiche riconosciute a livello internazionale come vita indipendente. Perciò è importante stabilire con chiarezza i principi fondamentali della vita indipendente secondo gli scritti degli attivisti disabili e delle loro organizzazioni in tutto il mondo (idem, pp. 9-10).
È insomma estremamente concreta la possibilità che il silenzio menzionato lasci spazi troppo vasti per la frequente ignoranza esistente in materia nonché per intenti ostruzionistici troppo diffusi, fenomeni questi quasi tutti riconducibili all’”industria della disabilità” (idem, p. 4) composta da organizzazioni “caritatevoli” e del “volontariato”, dotate di un grande esercito di aiutanti “professionali”, che includono medici, infermieri, terapisti e assistenti sociali (idem), il cui risultato finale è che le presunte inadeguatezza e dipendenza dei disabili sono affermate e rinforzate (idem), anziché l’inverso come dovrebbe essere se venisse realizzata l’autodeterminazione di queste persone. Salvo accennare al fatto, troppo lungo per poterlo approfondire qui, che su questo ci sarebbe molto da discutere.

Art. 13: Monitoraggio e verifica

In questo articolo sono previsti, “nei modi e nei tempi stabiliti dalle linee giuda”, il monitoraggio e la verifica dei risultati conseguiti da ogni progetto di vita indipendente. 
È comprensibile, e per certi versi positivo, che la legge regionale in esame preveda questo. Infatti è richiesto l’impiego di determinate risorse pubbliche, ed è quindi ovvio che sia prevista una verifica per stabilire se tali risorse vengono impiegate in maniera utile. Anche se poi, nella realtà pratica, ci sono molti modi per svuotare il contenuto di queste verifiche. Oltre al fatto che in altri campi, destinati a persone potenti, risorse ben più ingenti vengono utilizzate senza analoghi controlli.
Il fatto è però che la vita indipendente coinvolge molti aspetti privati, estremamente intimi ed inviolabili della vita del soggetto. Ed allora va osservato che a questo proposito la legge regionale in esame tace su un paio di questioni fondamentali. 
In primo luogo sono coinvolte una serie di questioni strettamente connesse con la privacy e che coinvolgono anche i “dati sensibili”, ma siamo ben lontani dall’avere una normativa adeguata in tema di privacy e vita indipendente.
Per esempio, grazie all’assistenza personale, il disabile può iniziare a svolgere un’attività politica, oppure può iniziare ad avere una vita sessuale, magari non esclusivamente eterosessuale, e così via. Per cui ci vuole un’estrema cautela nell’avere accesso alla conoscenza di queste attività.
Si potrebbe anche dire che non deve esserci accesso a talune di queste informazioni, altrimenti ciò potrebbe bloccare il disabile dallo svolgere determinate attività. O comunque potrebbe farlo sentire in condizioni di inferiorità rispetto alle persone normodotate, che possono svolgere determinate attività senza che si sappia in giro. Naturalmente, sia ben inteso, purtroppo è inevitabile che l’assistente personale, scelto/a tuttavia dal soggetto stesso, venga a conoscenza di alcune questioni estremamente intime del disabile. Ben altra cosa è però se tali questioni vengono conosciute anche dall’equipe multidisciplinare e da altri operatori sociali quando ciò non è strettamente indispensabile per l’eogazione della prestazione.
Il secondo punto è: come si valutano determinati risultati, appunto anche estremamente intimi e/o inviolabili, per stabilire se il denaro per la vita indipendente è stato speso in maniera utile? Ad es., il disabile ha speso bene il denaro pubblico se ha utilizzato l’assistenza personale per partecipare ad una determinata attività politica? Oppure per dedicarsi ad una certa pratica religiosa? O a talune attività naturalistiche? Oppure ha utilizzato l’assistenza personale per tenere la propria abitazione così pulita che poche persone arrivano a tanto?
Non è indispensabile una profonda conoscenza giuridica per capire che siamo su terreno estremamente delicato sul quale si possono ledere gravemente i diritti fondamentali dell’individuo. Ma anche su questo la legge regionale in esame tace.

Art. 15: Clausola valutativa

Nella lett. b) del co. 1 sono previste anche “domande ammesse a contributo e non finanziate”. In sostanza qui sembra volersi prevedere la liceità di una situazione in cui soggetti con disabilità grave, che hanno tutti requisiti per ricevere i contributo per la vita indipendente, ma ai quali non viene erogato detto finanziamento per mancanza di fondi. 
Ad essere molto approssimativi tale disposizione potrebbe essere anche condivisibile. Sicuramente però susciterebbe lo sdegno del “buon padre di famiglia”, che riflettesse sul fatto che ciò significa negare il sostegno a prestazioni essenziali per vivere, mentre ingenti risorse pubbliche vengono utilizzate per altri finanziamenti destinati a prestazioni sicuramente non altrettanto essenziali nella gerarchia dei valori costituzionali.
Ma, al di là di questo, si torna all’interrogativo posto in precedenza, per cui da un lato ci sono esigenze di vita fondamentali, inviolabili e insopprimibili, e dall’altro c’è il fatto che l’entità dei fondi a disposizione è stabilita dalle maggioranze politiche.

Art. 16: Gruppo regionale di coordinamento

Nel co. 1 di questo articolo è previsto che nel “gruppo regionale di coordinamento” vi sia un sola persona in rappresentanza di tutte le associazioni dei disabili e molte altre persone di nessuna rappresentatività in tal senso. Il fatto di esserci un solo rappresentante del mondo della disabilità di per sé non può essere considerato di una negatività preclusiva. Ciò perché detto gruppo dovrebbe essere un organismo tecnico, e quindi anche un sola voce con una certa competenza, quando ne è il caso, dovrebbe essere ascoltata compiutamente. Tuttavia nella realtà vera della vita solo raramente accade questo perché troppo spesso le persone, anche se altolocate, non hanno una preparazione mentale sufficiente a saper ascoltare con la doverosa attenzione la competenza altrui, anche se in netta minoranza numerica.
Inoltre è previsto che il referente sia designato dalle “associazioni di tutela dei disabili riconosciute”. Si omette qui di soffermarci sulla parola “riconosciute” perché la discussione porterebbe troppo lontano. Si fa invece riferimento a tutto quanto scritto in precedenza sull’essenzialità della competenza specifica in tema di vita indipendente e si osserva che, nel comma in esame, detta competenza non è richiesta al referente delle associazioni di tutela dei disabili.

Uffici di cittadinanza

Alla lett. a) del co. 4 dell’art. 16 è previsto l’aiuto degli uffici di cittadinanza per la predisposizione dei progetti per la vita indipendente. 
È un punto che va osservato con molto rilievo. Infatti è davvero importante che i disabili vengano aiutati nell’arduo compito di predisporre tali piani. Ed è di rilievo che questo dovere venga previsto da un legge (regionale). Va anche osservato che è una disposizione che fa sentire in concreto al disabile di non essere solo, aspetto questo che è davvero importante in molte situazioni concrete. 
Tuttavia anche qui, più che altrove, la legge regionale in esame tace su un problema drammatico. E cioè il fatto che il tema della vita indipendente richiede una notevolissima conoscenza specifica, mentre, di regola è un argomento largamente sconosciuto in Italia. Tanto che abbiamo visto, nella Premessa di questo scritto, l’importanza che, nei paesi più evoluti, viene attribuita ai CILs.
Per cui, il fatto che legge regionale in esame non si occupi neanche in questo punto della preparazione specifica di chi si deve occupare di vita indipendente, fa sì che questa disposizione di legge sugli uffici di cittadinanza può non servire a niente o essere molto spesso controproducente.

Assistenza agli utenti per gli aspetti amministrativi e contabili

Nella successiva lett. b) dello stesso co. 4 dell’art. 16 sono previsti protocolli d’intesa con le organizzazioni di varia natura che possono aiutare il disabile sugli aspetti amministrativi e contabili per la gestione della vita indipendente. 
Anche questo è un aspetto di estremo rilievo perché si tratta di questioni che nella realtà concreta della vita vera, molto spesso sono assai difficili da gestire per il disabile. È di rilievo osservare che la Regione Molise abbia voluto far sì che i disabili non siano soli su questo ed abbia ritenuto il punto così importante da garantirlo con una legge. Salvo anche qui vedere se poi verrà realizzato con la professionalità indispensabile.

Aiuto per la gestione delle criticità e dell’assistenza personale

Nella successiva lett. c) dello stesso co. 4 dell’art. 16 è previsto l’aiuto degli ambiti territoriali e sociali per la gestione delle criticità e degli altri aspetti dell’assistenza personale autogestita. In effetti non poche volte può essere assai complicato gestire il rapporto tra disabile ed assistenti personali. Le ragioni di queste difficoltà sono molteplici e non si affrontano qui perché esulano dal profilo giuridico. Si tratta però di questioni così importanti che, se non affrontate correttamente, numerose volte possono far crollare di fatto, o anche formalmente, la possibilità di vivere in maniera indipendente. 
Tuttavia nella gestione di queste cose sono coinvolti numerosi aspetti di estrema delicatezza. Innanzitutto perché non poche volte si ha a che fare con gli aspetti più intimi e delicati della vita privata della persona (disabile). Inoltre, parimenti importante, c’è il fatto che sono coinvolte molte o tutte le libertà inviolabili dell’individuo. Per cui, per la gestione corretta di questi aspetti, ci vuole un’estrema attenzione, una grande conoscenza della materia ed una notevolissima capacità di rispettare l’individuo, che appare più vulnerabile. Se si escludono talune eccezioni, che possono sempre esistere, risulta che queste capacità siano raramente esistenti in generale e anche, o forse più che mai, tra chi gestisce i servizi sociali. Per cui anche qui è altissimo il rischio che in realtà vengano raggiunti obbiettivi opposti a quelli che la legge regionale in esame dice di proporsi. 
Tra le molte cose che si potrebbero osservare in proposito, si rileva che nelle cause giudiziarie molto spesso, per non dire sempre, si ha a che fare con i diritti fondamentali dell’individuo. Ed è per questo che i concorsi per diventare magistrato sono estremamente severi e in più ognuno, quando si discute dei suoi diritti fondamentali, ha l’assistenza di un avvocato. Viceversa non risulta che la preparazione di chi opera nei servizi sociali sia particolarmente severa. Inoltre non è prevista alcuna tutela specifica per il singolo disabile. Tutti aspetti questi su quali la legge regionale in esame tace suscitando molte perplessità.
Se poi si fa riferimento al ruolo essenziale, visto in precedenza, che i CILs hanno per la vita indipendente in Nord America e in Nord Europa (si ricorda che in precedenza è stato citato che, in una propria relazione, perfino il Primi Ministro del Regno Unito ha indicato l’essenzialità di tali CILs), il fatto che essi non siano affatto previsti nella legge regionale in esame, neppure per la gestione delle criticità, porta ad escludere che essa possa consentire di raggiungere l’obbiettivo indicato nell’epigrafe della legge regionale stessa.

Elenco di assistenti personali

Infine nella successiva lett. d) dello stesso co. 4 dell’art. 16 è previsto che i centri per l’impiego debbano istituire un elenco di assistenti personali. 
Anche questo è un punto molto importante previsto dalla legge regionale in esame. Infatti per le persone con gravi disabilità riuscire a trovare gli assistenti personali è importantissimo, tanto da essere essenziale per vivere. E un grande ostacolo è dato dal fatto che spesso è difficile trovare assistenti personali per la vita indipendente. Quindi, sotto questo punto di vista, la disposizione qui in esame è davvero importante. Ed è ancora una volta indice della volontà del legislatore regionale del Molise di essere veramente vicino alla vita concreta del disabile. 
Tuttavia, se si esamina la situazione con attenzione, si vede che in realtà, soprattutto per via della disoccupazione attualmente esistente, non è difficile trovare assistenti (personali). La vera difficoltà, talvolta enorme, consiste nel riuscire a trovare assistenti personali adeguati alla situazione. Quando si dice adeguati si intende capaci da un lato di avere a che fare con gravi disabilità e dall’altro in grado di aiutare la persona disabile non solo a sopravvivere, ma anche a realizzare se stessa ed a vivere in maniera dignitosa, e quindi autodeterminata.
Per riuscire a fare bene questo lavoro sono infatti necessarie alcune qualità. Sia chiaro, nulla di eccezionale, ma qualità che comunque non tutti hanno, e soprattutto che soltanto poche persone sono abituate a sviluppare e ad utilizzare in una misura che sia adeguata per questo tipo di lavoro. Insomma può essere estremamente delicato stabilire in base a quali criteri le persone in cerca di lavoro possono essere idonee pere essere inserite nell’elenco menzionato nel punto qui in esame. Tanto più se si considera che svolgere questo lavoro significa avere a che fare in maniera estensiva con persone spesso estremamente vulnerabili e, nella maggior parte dei casi, in solitudine.
Ebbene la legge regionale in esame tace completamente su un punto assolutamente cruciale, e cioè su quali requisiti devono essere posseduti per essere inseriti in tale elenco.
Inoltre si fa riferimento a quanto era stato visto a proposito del co. 5 dell’art. 1 di questa legge regionale laddove non vi è nulla di esplicito sul fatto che i disabili, ai fini della vita indipendente, possono scegliersi in totale libertà gli assistenti personali. 
Ed allora sorge un quesito di notevoli proporzioni: per poter accedere ai finanziamenti previsti dalla legge regionale in esame, i disabili devono rivolgersi soltanto agli assistenti personali inclusi nell’elenco di cui al punto qui in discussione? Su una questione così cruciale la legge regionale in esame non è chiara. Tuttavia, se esistesse tale vincolo, si tratterebbe di un’altra via attraverso la quale la legge regionale in esame porterebbe al raggiungimento di risultati opposti a quelli della vita indipendente. 
Il discorso sarebbe estremamente lungo, ed esulerebbe in larga misura dai profili giuridici qui in esame, però ci possono essere vari ed essenziali motivi per i quali il disabili può avere assoluta necessità di assistenti personali non inseriti nell’elenco qui menzionato. Il punto è comunque rilevante ed è stato preso in considerazione da altri enti. Ad esempio, la Regione Toscana (ultima frase del co. 2 dell’art. 7 della l. r del 28 dicembre 2009, n. 82) ha esplicitamente escluso l’obbligo di accreditamento per gli assistenti personali per la vita indipendente.

Conclusioni

Indubbiamente quella esaminata in questo scritto è una legge regionale abbastanza elaborata e che ha richiesto molto lavoro. Inoltre è comprensibilissimo che per i disabili, in enormi difficoltà pratiche, avere il finanziamento previsto da questa legge regionale può fare una notevole differenza rispetto alla situazione preesistente.
Tuttavia, esaminando il testo da un punto di vista giuridico e con un po’ di attenzione, si è visto che in realtà è consistente la probabilità che, nell’applicazione concreta di questa legge regionale, si raggiunga l’obbiettivo opposto a quello di consentire a chi ha gravi disabilità di autodeterminare la propria vita. È un problema presente anche altrove (Ratzka A., 1992).

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Martedì 06 Luglio 2010 13:49 Raffaello Belli
 
La Corte di cassazione civile, sez. II, con sentenza del 05-10-2009, n. 21271, ha stabilito che i comuni possono far pagare le auto con contrassegno arancione che parcheggiano nei posti auto segnati con le strisce blu. In primo luogo va evidenziato che in questa sentenza la Corte di cassazione ha ribadito due punti a favore delle persone disabili: in primo luogo ha ribadito che è dovere della Repubblica agevolare la mobilità delle persone disabili con la propria auto;
in secondo luogo la Corte ha ricordato che per i comuni è una facoltà, e non un dovere, far pagare i disabili per parcheggiare la propria auto nelle strisce blu. Tuttavia, nella sentenza in esame, il punto a svantaggio dei disabili è che la Corte di cassazione ha stabilito che i comuni possono far pagare il parcheggio nelle strisce blu. Il ragionamento centrale della Corte in proposito è che la mobilità dei disabili viene agevolata facendo sì che queste persone riescano a trovare i posti liberi dove parcheggiare. Mentre, sempre secondo la Corte, è del tutto insignificante se poi i disabili devono pagare.
E qui “casca l'asino”. In primo luogo, certo, per gli stipendi da nababbi dei magistrati della Corte di cassazione, è importante trovare il posto dove poter parcheggiare, poi non conta niente se alla fine della giornata ci sono da pagare 5, 10, o 15 euro. Il discorso è ovviamente ben diverso per un disabile costretto a sopravvivere con una pensione di € 270 al mese, cioè, si noti bene, da un trentesimo ad un quarantesimo dello stipendio mensile di un magistrato della Corte di cassazione. In questi casi anche 5 euro al giorno fanno una differenza enorme.
E' evidente che la magistratura deve avere ben presente questa differenza concreta. Se questa differenza non viene tenuta nella dovuta considerazione vuol dire non tener presente gli artt. 2 e 3 della Costituzione nonché il co. 3 dell'art. 2 della legge 1 marzo 2006, n.67, secondo il quale: “Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.”
Ed è evidente che, costringendoli a pagare per il parcheggio nelle strisce blu, i disabili vengono messi in una posizione di svantaggio rispetto alle altre persone. Infatti la pensione di invalidità civile è molto più bassa di un qualsiasi reddito dal lavoro o da pensione. Inoltre è ampiamente dimostrato che, in media, le retribuzioni, e quindi anche le pensioni dal lavoro, delle persone disabili sono molto più basse di quelle delle persone cosiddette normodotate. C'è poi il fatto che i parcheggi a pagamento nelle strisce blu vengono istituiti per scoraggiare le persone ad utilizzare l'auto.
In altre parole, se non vuol pagare il parcheggio nelle strisce blu, molto spesso una persona normodotata può cavarsela con il motorino, la bicicletta, gli autobus, camminando a piedi ecc. Viceversa per moltissime persone disabili tutto questo è impossibile. Ovvero per moltissime persone disabili l'unica alternativa a non parcheggiare nelle strisce blu può essere quello di non uscire di casa. Quindi, anche sotto questo profilo, far pagare i disabili nelle strisce blu significa violare gli artt. 2 e 3 della Costituzione e la legge 67 del 2006.
Infatti il costo del parcheggio nelle strisce blu finisce per risolversi in una tassa sulla disabilità. A tutto questo si può poi aggiungere un'ulteriore discriminazione perché spesso le macchinette per pagare il parcheggio nelle strisce blu sono troppo lontane ed inaccessibili per chi ha consistenti difficoltà motorie. Quindi non ci si può arrendere di fronte a questa sentenza e, se necessario, vanno fatti altri ricorsi alla magistratura. Infatti le sentenze della Corte di cassazione contano sì molto, però capita poi anche che in successive sentenze la Corte cambi il proprio orientamento. Inoltre è importante far notare ai comuni i limiti che ci sono in questa sentenza.
E' realistico ritenere che dietro a questa sentenza, come dietro ad altre, ci siano tre notevoli problemi. Il primo è che molto probabilmente i magistrati, che hanno deciso questa sentenza, non conoscono la realtà della vita concreta dei disabili. Il secondo problema è che gli alti magistrati vivono una vita troppo privilegiata, in un mondo troppo staccato dalla realtà della vita della maggior parte delle persone. E, siccome, come tra tutte le persone, anche fra i magistrati c'è chi è meno capace di utilizzare l'intelligenza in maniera veramente completa, quando capita che sono queste persone a decidere, il mondo di privilegi in cui vivono può impedire di capire la realtà. E' chiaro che l'assenza di privilegi di per sé non è affatto garanzia di capacità di capire le cose. Però tale assenza di privilegi diventa uno straordinario ausilio quando è unito alla padronanza di taluni strumenti cognitivi.
Il terzo problema è che, fino all'avvento della Costituzione, i magistrati si trovavano a dover decidere su una tipologia di questioni abbastanza limitata. Man mano che viene attuata la Costituzione, ed in particolare a seguito degli artt. 2 e 3, i magistrati si trovano a dover decidere su una sfera molto più ampia di questioni. Ed è allora molto difficile che una stessa persona fisica (magistrato) possa conoscere tutte le questioni per le quali è oggi necessario rivolgersi al giudice. È evidente che la responsabilità prima di tutto ciò è di chi fa le leggi, quindi del Parlamento e dei Consigli regionali.
Infatti dovrebbero essere fatte leggi più precise, che stabiliscano con più chiarezza quali sono i diritti ed i doveri dei cittadini. Cosicché poi per i magistrati diventi più facile prendere le decisioni. Tuttavia sorge un altro problema e cioè che, per far sì che l'amministrazione della giustizia si avvicini un po' di più alla giustizia secondo i parametri stabiliti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, sarebbe necessario dimezzare gli stipendi degli alti magistrati in modo che questi possano fare una vita più vicina alla realtà concreta della stragrande maggioranza delle persone. Si badi bene, con questo non si vuol affatto cavalcare la tendenza a colpire la magistratura. Viceversa se ne vuole esaltare il ruolo perché la vera forza sta nell'essere vicini alla vita reale. 
Raffaello Belli
  Nel 1989 alla fondazione di Enil a Strasburgo dissi che il modello di vita indipendente, che ci veniva proposto, era sostanzialmente valido soltanto per una piccola parte del mondo, e per questo mi creai molti nemici.    Alcuni mesi dopo, in un editoriale, Ratzka riprese questo problema.    Oggi è ancora più chiaro che purtroppo tale previsione era corretta.
  Mi sembra insomma serio ritenere che attualmente sono davvero ridotte al minimo le possibilità di realizzare la vita indipendente secondo taluni modelli.
  Uno dei principali ostacoli a ciò è dovuto al fatto che, grosso modo negli anni '60-'80, con lo spettro del comunismo, e grazie al boom economico e relativo surplus di ricchezza, il capitalismo occidentale poteva permettersi il cosiddetto welfare.
  Oggi la situazione è radicalmente cambiata:
-     quello spettro è quasi scomparso.
-     In molti paesi occidentali, Italia in prima fila, il cosiddetto “sviluppo” è stato finanziato in larga misura con il crescente debito pubblico non più gestibile.
-     La cosiddetta globalizzazione fa sì che, per far fronte alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, il capitalismo occidentale deve ridurre i “costi” (del lavoro e del welfare) più o meno a quei livelli. Di sicuro con una certa gradualità, ma comunque la necessità è questa.
-     Le condizioni del cosiddetto “ambiente” sono tali che il tipo di sviluppo attuale non può proseguire oltre, realisticamente perché il pianeta non ne può più e quindi ci sarà sicuramente la soppressione dell'essere umano, o, in ogni caso, ci sarà l'esaurimento delle risorse.
  In Italia, in particolar modo per quanto riguarda i disabili, la situazione è ancor più grave:
-     in generale il capitalismo si è sempre sviluppato basandosi sulla criminalità e sull'illegalità, però questo in Italia è molto più accentuato che nel resto dell'occidente e con una trasversalità e un'evidenza pubblica molto più vicine ai paesi in via di sviluppo che a quelli occidentali. Questa illegalità diffusa fa si che, rispetto ad altri paesi, ci siano meno risorse pubbliche a disposizione e meno diritti per chi ne ha veramente necessità.
-     Il prof. Barnes, dell'Università Leeds, sostiene giustamente che un grosso ostacolo all'autodeterminazione dei disabili è dato da quella che lui chiama l'”industria della disabilità”, cioè tutte quelle persone, istituti, cooperative, associazioni o federazioni, servizi speciali ecc., che campano sulla disabilità. Ovvero vivono sul fatto che chi ha talune difficoltà psicofisiche o sensoriali viene costretto a vivere in maniera significativamente riduttiva.  È evidente che la vita indipendente non si affermerà mai se proprio il movimento per la vita indipendente agisce per consolidare le posizioni di chi vive sulla disabilità, posizioni assolutamente determinanti ai fini del mantenimento della disabilità .
In altre parole mi sembra che il secolo scorso abbia dimostrato ampiamente che la  ricerca del babbo, del capo, del direttivo, della mamma, della chioccia, si risolve in una droga, che, nel migliore dei casi, porta a “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Ovvero, fuori dal mondo della disabilità, almeno in piccola misura si inizia a capire che alla gallina non conviene covare una pietra per far nascere un pulcino.
Infine, ma non meno importante a questo proposito, va considerato che  la funzione  disabilitante dell'”industria della disabilità” è notevolmente più grave in Italia per via del ruolo dello stato del Vaticano, che, con la sua opera colonizzatrice, ha contribuito notevolmente sia alla maggiore arretratezza civile del popolo italiano che ad un consolidarsi degli interessi di chi vive sulla disabilità.
  Considerati la crisi economica mondiale, e il particolare deterioramento dell'Italia, è insomma realistico ritenere che verrà fatto di tutto affinché i disabili vivano il meno possibile e in un contesto che porterà all'esaurimento di questa cosiddetta civiltà.